HEIDEGGER E Jà¼NGER DIVISI DAL NICHILISMO

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In pochi altri casi, come nel confronto tra Heidegger e Jà¼nger, risulta provato il detto che un grande pensatore riconosce il senso profondo della propria opera attraverso lo scontro con un autore di pari livello. Fino ad ora il loro titanico corpo a corpo, inciso come una cicatrice nel cuore del Novecento, era consegnato soprattutto al dialogo
Oltre la linea (Adephi, a cura di Franco Volpi), costituito dai due testi che ciascuno aveva composto per i sessant’anni dell’altro. Adesso quel confronto ritrova l’intero sfondo teoretico in cui era maturato attraverso la pubblicazione di tutti gli appunti e le riflessioni svolte da Heidegger sul proprio interlocutore in un volume, intitolato
Ernst Jà¼nger, tradotto e ben curato per Bompiani da Marcello Barison.
Per situarlo nel suo tempo bisogna tenere presente da un lato l’ampia discussione sulla tecnica, avviata già  negli anni Dieci da autori come Werner Sombart e Max Scheler, Oswald Spengler e Georg Simmel; dall’altro un gruppo di trattati di Jà¼nger sulla Mobilitazione totale, sul Lavoratore e sul Dolore, che avevano subito suscitato l’interesse di Heidegger. Il loro tema di fondo era costituito dal dispiegamento planetario della tecnica e dalla consumazione dei valori umanistici che esso determinava in una forma cui era stato da tempo assegnato il nome di nichilismo. Al suo centro Jà¼nger collocava la figura del Lavoro, intesa come ciò che mobilita tutte le risorse del pianeta in vista di una produzione illimitata. Piuttosto che attardarsi in una nostalgia per il mondo perduto, per lo scrittore, reduce dal trauma della Grande Guerra, si trattava di fronteggiare questa situazione tentando di costruire nuovi ordini.
Ciò che Heidegger rinveniva in questi testi era una capacità  diagnostica pari a quella dimostrata da Nietzsche nei decenni precedenti. E ciò non perché Jà¼nger fosse un suo seguace, «come ad esempio D’Annunzio e Mussolini, che concilia assai bene il proprio presunto spirito nietzscheano con le sue relazioni col Vaticano». Ma perché egli ha colto, portandola ad espressione nella categoria del Lavoro, quell’impulso sopraindividuale che Nietzsche definì “volontà  di potenza”, portato al massimo grado dallo sviluppo illimitato della tecnica: «Jà¼nger — scrive con linguaggio espressionista Heidegger — non aveva nello zaino il libro di Nietzsche intitolato La volontà  di potenza, ma venne colpito da fuoco e sangue, da morte e lavoro, da silenzio e tuono della battaglia di materiali come manifestazione della volontà  di potenza».
Ma se questa è la diagnosi jà¼ngeriana che Heidegger fa propria, qual è l’atteggiamento che bisogna avere? Come rispondere alla perdita irrefrenabile dei valori su cui si era costruita la civiltà  europea? Se nei grandi saggi degli anni Trenta Jà¼nger profila una sorta di nichilismo eroico dell’azione, volto ad assumere in tutte le sue conseguenze la trasformazione in atto, già  nel romanzo del 1939 Sulle scogliere di marmo, e poi soprattutto nel Trattato del ribelle, sembra mutare tono. Fermo restando che il processo nichilistico non può essere arrestato — va semmai accelerato per portarlo ad esaurimento — l’unica possibilità  è quella di difendere alcuni spazi interiori, come l’eros, l’arte, l’amicizia e lo stesso dolore, a riparo dalle minacce del Leviatano e dagli appelli delle chiese. Tali baluardi appaiono allo scrittore come gli ultimi territori selvaggi, oasi di libertà  nel «deserto che cresce». La singolarità  della sua posizione sta proprio in questa oscillazione tra una sorta di ottimismo costruttivo, che lo porta a cavalcare l’onda montante della mobilitazione totale e un atteggiamento impolitico in cui si delineano figure estreme di resistenza come quella, solitaria, dell’Anarca, rifugiato nella propria interiorità  e indifferente a tutto.
E Heidegger? Come si pone di fronte alle effrazioni ipotizzate da Jà¼nger? Se apprezza massimamente la fenomenologia della crisi da lui tracciata, al punto di modellare su di essa la propria concezione della tecnica, non ne condivide la terapia, giudicandola non soltanto letteraria, ma interna a quella metafisica che vorrebbe superare. Torna la questione della “linea”, del “meridiano zero” oltre il quale non valgono più i consueti strumenti di navigazione. Mentre Jà¼nger, pur consapevole della lunghezza della traversata, ritiene che la si possa oltrepassare alla ricerca di qualcosa di nuovo, Heidegger si mostra più prudente. Se il nichilismo non è il frutto malato di una stagione recente, perché affonda le proprie radici nella storia dell’essere, allora non è superabile a comando, in base ad una semplice volontà . La stessa idea di superamento, tipica del modo di pensare moderno, è parte integrante di quella medesima semantica nichilista che ci si illude di lasciarsi alle spalle, mentre non si fa che riprodurre davanti a noi.
E allora? Cosa resta da fare? E soprattutto il destino che ci attende è in qualche modo ancora nelle nostre mani o ci sfugge del tutto? Nella corrente letteratura filosofica si dà  per scontata la superiorità  della tesi di Heidegger sulla più sfuggente prospettiva di Jà¼nger. E sul piano della coerenza interna dei concetti, è difficile contestarlo. Ma, se ci trasferiamo al piano della prognosi, siamo poi sicuri che l’amara sentenza heideggeriana secondo cui «ormai soltanto un dio ci può salvare» sia preferibile agli slanci eroici di Jà¼nger? Da ultimo: Barison dedica questo lavoro alla memoria di Franco Volpi. In questo ricordo vorrei unirmi a lui.


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