Hessel la mia indignazione

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Lei è stato uno dei redattori della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Le sembra che questi diritti siano rispettati?
Per me è l’occasione per tornare su due idee false. La prima è che avrei fatto parte del Consiglio nazionale della Resistenza. A quei tempi io ero a Londra, nell’Ufficio centrale di informazione e azione. Ho quindi seguito da vicino il lavoro dei compagni in Francia, che Jean Moulin era riuscito a riunire attorno a un programma considerevole e importante. Il programma del Cnr è stato redatto in modo intelligente da persone che avevano una meravigliosa libertà , poiché erano resistenti e non erano al governo. Ero al corrente del programma, l’ho sostenuto, ma non ho partecipato alla sua redazione! L’altro errore è di accordarmi il ruolo di co-redattore della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Più precisamente, nel 1948 ero a New York come principale collaboratore del vice-segretario generale incaricato dei diritti dell’uomo e delle questioni sociali, Henri Laugier. A questo titolo ho assistito alle riunioni della Commissione, di cui faceva parte René Cassin, principale redattore della Dichiarazione. Possiamo quindi dire che ho assistito molto da vicino alla sua redazione, dall’inizio alla fine. Ma ce ne vuole per pretendere di esserne stato co-redattore! Come se dicessi che il generale De Gaulle e René Cassin avessero avuto un ruolo minore e avessi fatto tutto io! È una cosa che comincia a pesarmi. Detto questo, sono due testi a cui faccio volentieri riferimento. Perché l’uno per la Francia, e l’altro per il mondo, sono programmi importanti.

È per questo che si è indignato.
Esattamente, visto che stiamo allontanandoci da questi programmi. Resto fedele ai primi anni di Franà§ois Mitterrand, che ha avuto il coraggio di portare la sinistra al potere. Certo, dopo Mendès France, sotto la Quarta Repubblica, che ha fatto più cose di quanto si dica adesso. Del resto, i trent’anni gloriosi si situano principalmente in questo periodo.

Secondo lei possiamo dire di essere in un periodo di regressione?
Sì, sia in Francia che nel mondo. Ma sul piano mondiale, per fortuna, ci sono le Nazioni unite. Ed è grazie a questa istituzione che, durante gli anni ’90, appena dopo il crollo del muro di Berlino, si sono succedute importanti conferenze. Quella di Rio, importante per l’ecologia, quella di Pechino per le donne, poi Vienna per i diritti dell’uomo e Copenhagen per l’integrazione sociale. Un decennio utile, che si è concluso con l’adozione degli obiettivi del millennio per lo sviluppo, prima di un decennio di passi indietro: l’elezione di George Bush, mentre in Francia abbiamo perso Jospin e avuto Raffarin prima e Sarkozy in seguito. Di male in peggio.

Esistono degli articoli della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che oggi le sembrano cruciali?
In particolare quelli che riguardano i diritti economici e sociali, il lavoro, la sicurezza, l’insegnamento. Sulle libertà  pubbliche sono stati fatti dei progressi nel mondo, con alcuni passi indietro, però. Invece non ci sono motivi di soddisfazione né sulla casa, né sulla scuola, né sulla previdenza sociale, né sulle pensioni, che sono a rischio.

Lei scrive che «la ragione della resistenza è l’indignazione». Cosa vuole dire?
In un certo senso si tratta di un appello. L’atteggiamento più grave oggi è quello di pensare che non c’è niente da fare perché le cose non cambiano nella direzione desiderata e i politici e i finanzieri hanno tutte le carte in mano. Abbassare le braccia mi sembra del tutto sbagliato. Vorrei dire, un po’ come Sartre, che «un uomo che si disinteressa non è veramente un uomo». Quando si comincia ad indignarsi si diventa migliori, cioè dei militanti coraggiosi, dei cittadini responsabili. Dirsi «non possiamo fare niente», ritirarsi, significa perdere una buona fetta di ciò che costituisce la gioia di essere un uomo.

Questo ha a che fare con la disobbedienza?
Sottolineo sempre lo scarto tra legalità  e legittimità . Considero la legittimità  dei valori più importante della legalità  dello Stato. Abbiamo il dovere di mettere in causa, in quanto cittadini, la legalità  di un governo. Dobbiamo essere rispettosi della democrazia, ma quando qualcosa ci appare illegittimo, anche se è legale, tocca a noi protestare, indignarci e disobbedire.

In «Indignez-vous» lei evoca la figura di Walter Benjamin, contemporaneamente vicina e lontana…
Va inteso quasi come un opposto. Ho ripreso il suo commento a un quadro di Paul Klee, l’Angelus novus, nel quale vedeva la negazione di ciò che il progresso apporta di positivo. Vedeva in quest’opera un angelo che respinge la tempesta, che rappresenta il progresso. Benjamin era un disperato, non un costruttore. Ma appunto ci interessa per la sua filosofia, perché ci permette di rimbalzare nel senso opposto. Il progresso non produce solo malefatti. Bisogna capirli, indignarsi quindi, ma cercare di trovare una risposta. Opporrei a Benjamin, che è stato un amico, Edgar Morin, per impegnarci in un’umanità  più conviviale, più fraterna, più fantasiosa. Bisogna rispondere positivamente alla preoccupazione di Benjamin e non lasciarsi rinchiudere in una situazione che potrebbe essere scoraggiante.

Lei è nato in Germania. Nel corso della sua vita ha vissuto da immigrato e persino da clandestino. Che cosa pensa della politica di immigrazione in Francia?
La giudico molto severamente. Nell’85 ho presieduto una commissione sull’immigrazione con la volontà  di trasformare la Francia in un paese multiculturale, grazie all’attrazione che per fortuna questo paese esercita ancora nel mondo. È una nostra forza e bisogna conservarla. Ma da sempre sono molto critico sulla politica che viene applicata. Potremmo dare l’esempio con una forte politica di integrazione; invece ci siamo lasciati invadere dalla paura: sono troppo numerosi. Se l’immigrazione pone un problema, sono problemi che bisogna cercare di risolvere, non bisogna rispondere con le espulsioni.

Nel ’74 uno dei suoi compagni della Resistenza, André Postel-Vinay, aveva dato le dimissioni dopo sei settimane dalla carica di sotto-segretario al ministero del lavoro, incaricato dei lavoratori immigrati, perché mancava di mezzi. Al contrario, lei ha sempre preferito l’azione….
Anche perché non mi hanno mai proposto un ministero. Postel-Vinay ha probabilmente reagito nel modo migliore. Ma, in effetti, dire di no e andarsene non è il mio metodo preferito. Io cerco piuttosto di agire.

Oggi Gaza è diventata l’oggetto di una delle sua più grandi indignazioni, addirittura il suo principale impegno. Perché?
Gaza e la Palestina mi riguardano per ragioni comprensibili, essendo di famiglia ebrea e avendo poi applaudito alla creazione dello stato di Israele, prima di rendermi conto di ciò che stava succedendo laggiù. Ho visto l’Unrwa accogliere le prime centinaia di rifugiati, obbligata a fare piazza pulita per permettere ad Israele di insediarsi, ma ho visto soprattutto nella guerra dei Sei giorni una guerra terribile, una vittoria troppo forte da parte di Israele, che ha fatto impazzire il Paese. Personalmente, ho avuto l’occasione di fare dei viaggi a Gaza (il primo nel ’91), organizzati da israeliani che volevano avvertirci che ciò che succedeva non era fedele ai nostri valori. Così con alcuni amici, come Raymond Aubrac, abbiamo fatto vari viaggi. Abbiamo sempre constatato le stesse cose. Gaza è un vero rompicapo. È stata egiziana, ma l’Egitto non la vuole più; è stata israeliana, ma i coloni sono stati ritirati; è stata vicina alla Cisgiordania, ma c’è stata una rottura con le autorità  palestinesi di Ramallah. Per tutte queste ragioni, abbiamo voluto testimoniare per rompere l’isolamento di Gaza. Lì ci sono 1,5 milioni di palestinesi, di cui 1,1 milioni di rifugiati, su un territorio di appena 400 kmq. È una situazione insostenibile. Se c’è una ragione per indignarsi, è proprio contro il fatto che gli abitanti di Gaza vengano lasciati vivere in questa spaventosa enclave. Per questa ragione ho patrocinato e poi agito all’interno del tribunale Russel per la Palestina, fondato da Leà¯la Shahid, Nurit Peled e Ken Coates, che ha lo scopo di riportare il diritto internazionale al centro della questione israelo-palestinese. Il tribunale ha interpellato l’Ue, perché adottasse sanzioni contro le violazioni dei diritti nei confronti dei palestinesi.

L’appello al boicottaggio ha suscitato polemiche e accuse…
Boicottare un paese, perché no? Abbiamo boicottato il Sudafrica, che non si comportava in modo più grave di quanto non faccia oggi Israele. Ma le relazioni commerciali meritano di venire protette. Bisogna quindi stabilire una differenza tra il boicottaggio di tutti i prodotti provenienti da Israele e quello dei prodotti delle colonie, che sono illegali e lo giustificano ampiamente. Per rispondere alla gravità  della situazione in Palestina, se soltanto i problemi commerciali pongono dei problemi ad Israele, allora conviene passare per questa strada.

Malgrado tutte le sue lotte, i suoi impegni, lei non raggiunge sempre i suoi scopi. Ma non smette di perseverare.
Ho un obiettivo: che le cose cambino. Quando una mediazione fallisce, come è successo varie volte nel corso della mia vita, un’altra segue e forse fallirà  a sua volta, ma alla fine le cose si muovono. Lo scacco non è una ragione per rinunciare. La storia del mondo è fatta di scacchi ma anche di successi. Ed è perché si fallisce che bisogna continuare.

(Per gentile concessione del settimanale francese Politis. Intervista pubblicata il 3 gennaio 2011, traduzione di Anna Maria Merlo)


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