Il ministro Severino: azione disciplinare nei confronti di Ingroia

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ROMA — Aveva detto: «La mia cultura della prova viene dagli insegnamenti di Falcone e Borsellino. Quella del presidente Grassi non so». Per queste parole, indirizzate al presidente della quinta sezione penale della Cassazione, che aveva annullato con rinvio la condanna a Marcello dell’Utri a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, l’ex pm Antonio Ingroia finisce sotto procedimento. Il ministro della Giustizia, Paola Severino ha chiesto al procuratore generale della Cassazione «di estendere l’azione disciplinare» lo scorso 7 marzo, accusando l’ex procuratore aggiunto di Palermo di aver «leso l’immagine della magistratura».
È la seconda tegola disciplinare che si abbatte sul leader del movimento Rivoluzione civile, in aspettativa per le elezioni politiche. Il pg della Cassazione ha già  inviato al Csm un «atto di incolpazione» per Ingroia con l’accusa di «aver vilipeso la Corte costituzionale e leso il prestigio e la reputazione dei suoi componenti». Anche in quel caso venivano contestate a Ingroia le opinioni espresse in alcune interviste sulla sentenza della Consulta che aveva dato ragione al Quirinale nello scontro tra l’ex pm dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia e il Colle.
Al Csm ora giunge la richiesta di estendere quelle accuse. Nel mirino finiscono le interviste rilasciate il 10 e l’11 marzo 2012. Nelle tre pagine di accusa, il Guardasigilli ne riporta un brano: «Ho la sensazione che la sentenza e il dibattito che strumentalmente ne sta scaturendo — aveva dichiarato Ingroia — rientrino in quel processo di continua demolizione della cultura della giurisdizione e della prova che erano del pool di Falcone e Borsellino». «Frase ribadita», rimarca il ministro. «Mi sento alquanto sorpreso per questo esito perché conosco le prove che ci sono nel processo, ma non posso dirmi altrettanto sorpreso conoscendo la cultura della prova del presidente Grassi, che è totalmente lontana dalla mia», aveva aggiunto infatti l’ex pm.
«Tali espressioni — si legge nel documento al Csm —, insinuanti e allusive, si sostanziano in un giudizio pesantemente offensivo per i magistrati autori della decisione, cui viene attribuita la responsabilità  di contribuire a vanificare l’opera di ripristino della legalità  iniziata dal pool di Falcone e Borsellino». Nelle carte si parla anche di un «gratuito attacco personale diretto a colpire la figura del dottor Grassi, cui viene attribuita, in modo del tutto fuorviante e gravemente scorretto, la paternità  dell’esito della decisione» e che «viene additato come portatore di una cultura della prova di dubbia matrice e comunque lontana da quella di Falcone e Borsellino».
Un’esternazione che «non risulta avere riscontro nelle motivazioni, perfettamente in linea con gli orientamenti più rigorosi». Da qui l’accusa per Ingroia di aver «agito in violazione dei doveri di equilibrio di riserbo e correttezza, avendo svilito agli occhi della pubblica opinione la dignità  della decisione» e per averle assegnato «una funzione demolitoria delle nobili finalità  di contrasto alla criminalità  mafiosa attuata con i metodi… ispirati a Falcone e Borsellino, alludendo che sia stata emessa sulla base di approcci culturali oscuri e non trasparenti».


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