Il reddito di cittadinanza che Bersani non vuole vedere

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Avere costretto il Pd a inserire al punto otto del miniprogramma «per un governo di emergenza» gli «interventi urgenti per l’occupazione» è un altro segno delle possibilità  che la crisi, economica e istituzionale, stanno regalando al nostro paese. La dizione è vaga, ma quello della chiarezza programmatica non è mai stato un dono degli ultimi eredi del Pci. Basta leggere l’intervista rilasciata ieri a Repubblica da Pierluigi Bersani che farfuglia qualcosa a proposito di «sistemi universalistici negli ammortizzatori sociali». Tanto per essere chiari: il reddito di cittadinanza non è un ammortizzatore sociale.. È una misura di tutela universalistica delle persone, e non solo dei lavoratori con contratto da dipendente o da precario. Una differenza sconosciuta al segretario Pd, e ai suoi solidi convincimenti lavoristici, ma forse non agli alleati sellini di Nichi Vendola.
Sebbene sia stata la prima a indicare un accordo di governo con Beppe Grillo a partire dal reddito di cittadinanza, Sel non ha mai citato la raccolta firme per la legge di iniziativa popolare per l’istituzione di un «reddito minimo» in Italia, unico paese dell’Eurozona insieme alla Grecia e all’Ungheria a non avere adottato questa misura. Peraltro il partito di Vendola è stato tra i promotori della proposta di legge, insieme al Basic Income network-Italia (Bin) e altre 170 associazioni. Lo stato confusionale in cui vive il centrosinistra deve avere impedito di mettere sul tavolo questa proposta che potrebbe essere votata dal movimento 5 stelle. Una proposta firmata da oltre 50 mila persone che fanno parte del «popolo», anche se non è quello a cui fa riferimento Grillo.
Ma quanto costa il reddito di cittadinanza? Secondo gli estensori della proposta di legge, 10 miliardi all’anno da ricavare dalla fiscalità  generale. Ai singoli andrebbero 600 euro al mese, 7200 euro all’anno, «fino al miglioramento della condizione individuale», quindi per una durata flessibile e non rigida, come del resto previsto dalla stessa Commissione Europea. Questi costi dovrebbero essere finanziati dalla riforma (non cancellazione) della giungla degli attuali ammortizzatori sociali, stornando risorse dalla lotta all’evasione fiscale, dalle spese militari e dai risparmi sui costi della politica e della burocrazia (taglio della province e spending review). Qualcosa di simile l’ha detta Grillo in campagna elettorale, anche se la proposta, che oggi è senz’altro un cavallo di battaglia del suo movimento, è molto più rigida perché ha una durata massima di tre anni e prevede l’erogazione di mille euro ad una platea non ancora ben delineata. In un post sul suo blog, Grillo ha fatto un’analisi alquanto sommaria, e per certi versi inquietante, dividendo in due blocchi la società  italiana. Da una parte c’è la «casta» e i dipendenti pubblici, e dall’altra parte milioni di precari, gli esodati, i pensionati, i poveri. A questi ultimi dovrebbe andare quello che a pagina 10 del programma, l’M5S definisce il «sussidio di disoccupazione garantito», poi ribattezzato «reddito di cittadinanza». I finanziamenti verrebbero dal taglio delle spese militari, del fondo per l’editoria e dei salari dei dipendenti pubblici. In più ci sarebbe l’obbligo di accettare ogni proposta di lavoro. Sulla querelle è intervenuto ieri il coordinamento San Precario che ha richiamato alcuni dei principi fondamentali indicati dal filosofo Philippe Van Parijs, uno dei principali ispiratori del «basic income» come misura universale e incondizionata a favore della persona. Il reddito non è un sussidio di povertà , non deve obbligare ad accettare qualunque lavoro ma garantire dai ricatti e incentivare alla formazione o alla riqualificazione del cittadino, deve essere accessibile a chi risiede in Italia, anche senza cittadinanza. Su questo punto Grillo latita, ma se Bersani o Vendola volessero convincerlo, questi sono i punti per una vera riforma. La loro latitanza su questo tema è dovuta anche alla diffidenza della Cgil sul reddito. Ma, segno dei tempi, il segretario generale Susanna Camusso ha dichiarato a Il Manifesto del 23 febbraio di «non essere contraria ideologicamente al reddito», visto che ci sono state «sperimentazioni» nel Lazio o in Campania.
Quella del reddito di cittadinanza, da sempre una battaglia dei movimenti sociali, è diventata nel 1998 oggetto di un disegno organico della Commissione parlamentare presieduta da Paolo Onofri. A quel tavolo sedevano alcuni tra i massimi esperti italiani del Welfare, Massimo Paci e Chiara Saraceno, favorevoli al reddito e critici del «lavorismo» del sindacato italiano. Quella Commissione promosse le sperimentazioni abolite dal governo Berlusconi che pensò di trattarlo con la social card, una misura di mera sussistenza. In una vibrante intervista al Manifesto del 12 gennaio Stefano Rodotà  ha ribadito che il reddito è «un diritto universale della persona». Per essere istituito, ha bisogno di una riforma radicale del Welfare «proprio come accadde con lo Statuto dei lavoratori». Bersani ha capito poco o nulla di tutto questo ma, preso dal panico dell’«ingovernabilità », dovrà  capire che alla «radicalità » di Grillo si risponde con una rivoluzione:il reddito di cittadinanza, universale e incondizionato.


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