Il tramonto di «Motor City» Detroit dichiara bancarotta

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NEW YORK — Non sono bastate la rinascita di General Motors e Chrysler e la tenuta della Ford: Detroit, un tempo quarta città  d’America, ha continuato ad affondare sotto il peso della sua crisi economica e demografica. E ieri, dopo una lunghissima agonia, il governatore del Michigan Rick Snyder, repubblicano, ha dichiarato lo stato d’emergenza fiscale della capitale americana dell’auto commissariando, di fatto, il sindaco Dave Bing: un democratico nero, ex campione di basket della Nba, al quale gli elettori di Detroit avevano affidato le loro ultime speranze di uscire dall’incubo.
Bing ha corso a perdifiato per salvare la città  ma fin dall’inizio la sua impresa era apparsa disperata. Un anno fa il Corriere raccontò da Detroit la «mission impossible» di un municipio alle prese coi problemi di un agglomerato urbano diventato il laboratorio della crisi del welfare dell’era industriale nel mondo sconvolto dalla globalizzazione: 400 mila posti di lavoro manifatturieri persi in pochi anni e la necessità  di ridimensionare quella che era la rete di protezione sociale più generosa d’America. Il tutto in una città  le cui strutture e la cui rete di servizi pubblici, dall’elettricità  agli acquedotti, è ancora oggi quella della metà  del secolo scorso quando Detroit, con 1,8 milioni di abitanti, era la quarta metropoli d’America. Ma che da allora è stata letteralmente svuotata dalle varie crisi industriali: il censimento di due anni fa le attribuisce appena 707 mila abitanti.
Crollo delle entrate fiscali, 20 per cento di disoccupati e 38 per cento di cittadini costretti a vivere al di sotto della soglia dell’indigenza, il doppio rispetto alla media nazionale: Bing ha provato a correre ai ripari, a rivitalizzare l’economia risanando almeno alcuni quartieri.
Ne è venuta fuori una metropoli a macchia di leopardo nella quale si alternano distretti ormai recuperati a quartieri in totale stato d’abbandono: zone di rovine e case bruciate dai vandali. Bing avrebbe voluto trasformarle in aree di verde pubblico o in fattorie urbane, ma non ha avuto il tempo né le risorse.
Il sindaco ha anche ridotto il personale pubblico di duemila unità , ha tagliato stipendi e pensioni, ma non è bastato nemmeno questo. Forse avrebbe potuto fare di più, ma nessuno lo mette sul banco degli imputati. Neanche il governatore che è stato bene attento a non trasformare il caso in uno scontro politico tra democratici e repubblicani: da giorni gira con sotto braccio le tabelle della crisi demografica e del crollo delle entrate fiscali spiegando a tutti che a Detroit non c’è un conflitto politico ma una situazione apocalittica.
Snyder non ha ancora nominato un amministratore straordinario: prende tempo, anche per non mortificare Bing. Del resto è stato proprio il sindaco ad ammettere, una settimana fa, che il commissariamento era ormai dietro l’angolo. Così Detroit affonda nonostante il risanamento di alcune sue aree e l’orgoglio dell’industria automobilistica simboleggiato dall’ormai celebre spot della Chrysler, «Imported from Detroit», interpretato due anni fa da Eminem. Uno slogan che torna ora nella pubblicità  con la quale il gruppo guidato da Sergio Marchionne sponsorizza «Motown», la nuova versione del musical ambientata a Detroit che arriva a Broadway a metà  aprile. Ma la rinascita dell’auto non avrebbe dovuto salvare «Motor City»? Non è bastata e il perché l’ha spiegato lo stesso Bing: non solo la rinascita è parziale, con un recupero di manodopera che è una frazione di quella occupata negli anni Sessanta o Settanta, ma tutti gli stabilimenti che marciano a pieno regime e producono ricchezza sono fuori dal perimetro urbano di Detroit. Insomma, la ricchezza prodotta — e le relative entrate fiscali — finiscono in altri municipi.


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