«Il doppio movente di omicidi e stragi tra eversione nera, massoni e Servizi»

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Si può sostenere l’ipotesi, scrive il giudice Morosini nel voluminoso decreto di rinvio a giudizio, secondo cui la mafia «in un momento di transizione della vita politico-istituzionale, sociale ed economico-finanziaria dell’Italia del tempo, fosse alla ricerca di “nuove convergenze” e portasse avanti contemporaneamente due obiettivi tra loro compari vili, che ispirano singole condotte delittuose». Insomma, una trattativa dal «doppio movente».
Il primo, «più ambizioso e di lungo termine, consisterebbe nel convergere verso un sistema criminale più ampio e capace di includere in sé consorterie di diversa estrazione (massoneria deviata-P2, frange della destra eversiva, gruppi indipendentisti, mafia calabrese) interessate a sfruttare la crisi politica istituzionale italiana e acuirla con azioni destabilizzanti, in vista di nuovi equilibri». Un’alleanza che Cosa nostra avrebbe stretto con altre «entità » interessate a un «progetto eversivo» che secondo il giudice si evince dalle dichiarazioni convergenti di «tre personaggi di caratura criminale trasversale, a contatto non solo con l’organizzazione mafiosa ma anche con sodalizi collegati ai servizi di sicurezza, a logge massoniche e all’eversione di destra». Si tratta dell’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, dell’ex estremista nero Paolo Bellini e del presunto capomafia del messinese Rosario Cattafi, «ex militante di Ordine nuovo, già  coinvolto in indagini unitamente al capo della mafia catanese Nitto Santapaola e al capo della ‘ndrangheta Cosimo Ruga».
Al fianco di questo intreccio malavitoso con «obiettivi eversivo-separatisti», c’era la necessità  per i boss di avviare «la trattativa mirante a ottenere vantaggi anche sul piano della repressione penale». È la storia ricostruita dalla Procura in quattro anni d’indagini che hanno preso le mosse dalle dichiarazioni di Massimo Ciancimino, il figlio di «don Vito» che ha consegnato molti manoscritti dal padre, da cui sono scaturite testimonianze di pentiti e rappresentanti delle istituzioni che hanno offerto nuovi squarci di luce e nuove chiavi di lettura sui fatti del biennio ’92-94. Sorrette da documenti e decisioni governative, come l’ormai famosa mancata proroga del «41 bis» (l’articolo dell’ordinamento penitenziario che dispone il «carcere duro») per oltre trecento detenuti dell’autunno ’93.
Tutto comincia con l’omicidio dell’europarlamentare andreottiano Salvo Lima, il 12 marzo 1992, ed è il motivo per cui il processo si celebrerà  davanti alla Corte d’assise, completa di giuria popolare. Ma il giudice Morosini sottolinea che le intimidazioni nei confronti dell’ex ministro dc Mannino — «finalizzate a creare un rapporto di interlocuzione nuovo con il mondo politico» terremotato dalle inchieste su Tangentopoli, e dopo che i vecchi referenti non erano stati in grado di azzerare gli effetti del maxi-processo istruito da Falcone e Borsellino — prendono corpo anche prima. Risalgono al febbraio ’92, con due incendi e l’invio di un mazzo di crisantemi. E l’uomo politico minacciato non si rivolge ai magistrati, bensì ai carabinieri attraverso il maresciallo Guazzelli (assassinato il 4 aprile ’92) che fa da tramite con il Ros di Subranni e Mori.
Sono loro ad avviare quella parte di trattativa con Vito Ciancimino, tenuta nascosta anche ai vertici dell’Arma, assodata nella sentenza ormai definitiva di Firenze da cui il giudice palermitano attinge ampiamente: «L’effetto che ebbe sui capi mafiosi fu quello di convincerli, definitivamente, che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione». Il riferimento è alla bomba di Capaci che uccise Giovanni Falcone, ma anche a quella di via D’Amelio che tolse di mezzo Paolo Borsellino, e alle successive di Roma, Firenze e Milano, compiute nel ’93, in una diversa fase delle manovre per siglare il nuovo patto politico-mafioso. Che passano — nella ricostruzione «suscettibile di verifica dibattimentale», come il giudice ricorda con ripetitività  quasi maniacale — per l’avvicendamento ai vertici dell’Amministrazione penitenziaria dopo il quale maturano le mancate proroghe dei «41 bis» decise dall’ex ministro della Giustizia Conso (indagato per false dichiarazioni, non alla sbarra come Mancino per questioni tecnico-giuridiche).
A supporto di questa ricostruzione ci sono i documenti della Direzione delle carceri, ma anche una relazione della Direzione investigativa antimafia guidata da De Gennaro (vittima della calunnia imputata a Ciancimino jr) che per il giudice è uno degli elementi di prova più rilevanti. Dopodiché si arriva ai primi mesi del ’94, quando Cosa nostra «tenta di agganciare i nuovi protagonisti della politica italiana». Cioè Silvio Berlusconi, attraverso Marcello Dell’Utri. Il processo convocato per il 27 maggio si ferma qui, ma l’indagine della Procura di Palermo continua.


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