Perché soffrono le banche italiane

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JP Morgan è stata accusata da una commissione del Senato americano di aver nascosto informazioni rilevanti su grandi perdite sui derivati, mentre la Standard Chartered è accusata di aver trafficato clandestinamente con l’Iran. CONTINUA|PAGINA4 Infine, per non dimenticare l’Europa, i giornali tedeschi danno la notizia che alcune banche del paese avrebbero frodato il fisco per diversi miliardi di euro.
La riforma del sistema finanziario, intanto, non riesce a decollare. Il comitato di Basilea che si occupa delle norme suii livelli di capitale e di liquidità  ha pubblicato uno studio che mostra come le più grandi banche del mondo – che si erano a suo tempo opposte in modo virulento alle misure introdotte – abbiano fatto progressi nell’aumentare i livelli di capitale. Mancano ora solo 208 miliardi di euro di fondi freschi per raggiungere l’obiettivo finale, che è fissato per il 2019. Un traguardo facile da raggiungere, perfino troppo facile.
E’ uscito da poco un libro sul sistema bancario – A. Admati e M. Hellwig, The bankers’ new clothes: what is wrong with banking and what to do about it, Princeton University Press, Princeton, 2013 – che offre un’analisi completa delle cause della crisi finanziaria, mostra che tali cause non sono scomparse e sostiene che, quindi, le difficoltà  ritorneranno. Le banche, affermano gli autori, presentano una fragilità  finanziaria che non è contingente ma sistematica. Si tratta di istituzioni molto pericolose, il cui modello economico porta alla bancarotta e che dovrebbero essere protette da se stesse, aumentando fortemente i capitali propri.
Il libro mostra come l’opposizione delle banche all’aumento dei coefficienti di capitale abbia molte ragioni, tra le quali il fatto che esso porta a una diminuzione della redditività , che era cresciuta a suo tempo proprio perché gli istituti si assumevano rischi più elevati di prima sia sul fronte della gestione operativa, con la speculazione selvaggia sul mercato, che su quello della struttura di capitale, con un rapporto capitali propri/debiti che era sceso a livelli bassissimi. Tutto questo sapendo che, in caso di difficoltà , sarebbe poi corsi al socorso i pubblici poteri.
Di fronte a degli obiettivi fissati da Basilea di un 7,5% di mezzi propri sul totale delle attività  per le banche ordinarie e del 9,5% per quelle portatrici di un rischio sistemico, i due autori sottolineano che tali livelli sono del tutto insufficienti e che dovrebbero essere invece portati al 20-30%.
Da questo punto di vista, qual è la situazione delle banche italiane? Subito dopo lo scoppio della crisi si pensava che le banche del nostro paese se la fossero cavata meglio di altre, e almeno in parte era vero; ma la ragione non stava nella superiore capacità  dei nostri istituti di gestire le cose, ma nel fatto che erano di qualche anno in ritardo rispetto all'”innovazione finanziaria” delle loro omologhe europei e statunitensi e non avevano ancora avuto il tempo di assimilare le novità  tossiche inventate altrove. Poi le cose sono cambiate. Con l’avanzare della crisi, la crescita del sistema si è bloccata, i margini di redditività  si sono assottigliati e i singoli istituti hanno rivisto le strategie, riducendo gli eccessi passati. Si è assistito così a riduzioni del personale e al taglio delle filiali, alla vendita di attività , riduzione della presenza estera, outsourcing.
Mentre si svolgevano tali operazioni, è venuta alla luce la crisi di diversi istituti, spesso coniugata con qualche scandalo. E’ questo il caso del Monte dei Paschi di Siena, della milanese BPM, che ha chiuso il conto economico del 2012 con una perdita di 430 milioni, della Carige, con un risultato negativo di 63 milioni di euro, della Banca delle Marche, con una perdita di 520 milioni, per citarne solo alcuni tra i più importanti. Intanto si parla delle difficoltà  di molti altri istituti, grandi e piccoli.
Che cosa sta succedendo? Intanto c’è la forte crescita dei prestiti alla clientela che non vengono onorati alla scadenza; con l’aggravarsi della crisi tali difficoltà  sono destinate ad aumentare. Le sofferenze lorde sono cresciute in un anno di quasi 20 miliardi di euro, e quelle al netto dei fondi di accantonamento sono passate da un’incidenza del 12,7% sui mezzi propri del gennaio 2012 al 16,8% del gennaio 2013. Accanto alla crisi – che è un fenomeno “oggettivo” – pesano scelte sbagliate: un’ingiustificata sovraesposizione di molti istituti verso alcuni settori, tipicamente l’immobiliare e verso alcuni clienti, in molti casi imprenditori “amici”. E poi vengono alla luce veri e propri episodi di corruzione. Nel frattempo, il credito alle imprese e ai privati continua a ridursi. Nel gennaio e febbraio 2013 il precedente trend negativo è continuato indisturbato. Da un confronto con gli altri grandi paesi dell’Europa continentale risulta che la nostra situazione è peggiore di quella di Francia e Germania – paesi nei quali il livello del credito alle imprese continua a crescere, sia pure a tassi ridotti – e migliore soltanto di quella spagnola.
Su tali difficoltà  si sono abbattuti i recenti, perentori, suggerimenti della Banca d’Italia, che ha indicato alle banche la necessità  di aumentare gli accantonamenti al fondo svalutazione crediti, in particolare per quanto riguarda i crediti al settore immobiliare e l’esigenza di ridurre la distribuzione di dividendi. Via Nazionale ha, naturalmente, come punto di riferimento i coefficienti di Basilea sopra ricordati. Si tratta di indicazioni importanti e condivisibili, dettate dalla tangibile evidenza che molte banche nascondevano almeno una parte dei guai sotto il tappeto. Ma queste indicazioni hanno scatenato una furiosa e contraria campagna di stampa. Come al solito, le banche non hanno il coraggio di esporsi in prima persona e si rivolgono quindi a qualche giornale amico. Il risultato del diktat di Bankitalia è stato di evidenziare la grande debolezza di molti istituti che in passato sembravano registrare risultati molto positivi. Così, con le tante incertezze economiche e politiche che segnano in questo momento il caso italiano, le banche italiane oggi appaiono quelle più a buon mercato d’Europa. I titoli Unicredit e Intesa Sanpaolo – banche che pure sembrano essere in linea con i nuovi coefficienti di Basilea – vengono scambiati rispettivamente al 50% e al 60% al loro valore contabile tangibile, contro una media di 100% per il sistema bancario europeo. Persino gli istituti spagnoli ottengono quotazioni migliori.
Alle difficoltà  oggettive si è unita la questione di Cipro con l’imposizione di una pesante tassa sui depositi. Molti hanno cominciato a pensare, non senza qualche fondamento, che prima o poi toccherà  anche all’Italia e alla Spagna e nei prossimi mesi è possibile che si avvii una sotterranea corsa al ritiro di depositi dagli istituti del nostro paese. L’orizzonte si oscura ancora.
Siamo di fronte a un circolo vizioso tra difficoltà  bancarie, riduzioni nei livelli del credito alla clientela, pessimo andamento dell’economia reale. Tale circolo vizioso potrebbe essere spezzato soltanto, da una parte, sul fronte dell’economia reale, con l’avvio di una politica di sviluppo del paese, dall’altra su quello finanziario, dall’avvio dell’Unione bancaria a livello europeo, che peraltro non appare di imminente costituzione, o da forti aumenti dei mezzi propri degli istituti, aumento che non si sa come innescare. Le fondazioni bancarie sono ormai allo stremo e non hanno molte risorse, i privati non hanno molta voglia di intervenire, affidarsi al capitale estero non appare per molti versi opportuno. Pensiamo da tempo che una possibile via di uscita, almeno parziale, potrebbe risiedere nella nazionalizzazione di qualche importante istituto di credito, una scelta che contribuirebbe a far ripartire il credito alle imprese. Occorre poi mobilitare una parte delle risorse della Cassa Depositi e Prestiti e di quelle dei fondi pensione, come proposto di recente. Senza un cambio di marcia sulla finanza, i tempi diventeranno ancora più bui.
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