Sempre più affannosa la marcia di Bersani verso Palazzo Chigi

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Lentamente, vengono a galla i distinguo e le scorie che la campagna elettorale e l’esigenza dell’unità  avevano sommerso in omaggio alle primarie e all’illusione di una vittoria certa. La marcia del segretario verso l’incarico di presidente del Consiglio deve fare i conti con una fronda interna sempre più esplicita. Anche perché, a pochi giorni dal voto del 25 febbraio, la campagna elettorale non è finita ma ricominciata. La prospettiva di un voto ravvicinato, entro un anno o forse meno, porta tutti a restringere i propri orizzonti.
Ma alimenta le spinte centrifughe in una sinistra passata in poche ore dalla convinzione del trionfo alla realtà  prosaica di un Parlamento senza maggioranza al Senato; e con un premio alla Camera ottenuto per il rotto della cuffia, sfiorando appena il 30 per cento dei voti. Il problema del leader del Pd è che la competizione riparte anche all’interno del suo partito. E viene ufficializzata dallo stesso Matteo Renzi che alla vigilia delle elezioni si era mostrato accanto a Bersani, quasi a simboleggiare il presente vittorioso e il futuro ancora più luminoso della sinistra. E invece, il sindaco di Firenze ieri ha invitato il segretario a riconoscere la sconfitta. «Il centrosinistra le elezioni le ha perse», scolpisce. Bocciando il progetto bersaniano di addomesticare il Movimento 5 stelle: «Non gioco al compro e vendo dei seggi grillini».
Per Renzi il populismo del comico che ha trionfato nelle urne va «sfidato, non inseguito». L’affondo finale, però, è anche un gesto di lealtà . «Ho combattuto Bersani a viso aperto quando non lo faceva nessuno, guardandolo negli occhi. Non lo pugnalo alle spalle oggi, chiaro?», fa sapere a quelli che definisce «sciacalli del giorno dopo». Il messaggio è rivolto a quanti, nel Pd, sembrano pronti a usare il sindaco per tentare di scalzare il segretario. Ma Renzi tende a raffigurarlo comunque come un leader delegittimato dalle elezioni; e dunque sempre più in affanno nella sua corsa verso palazzo Chigi. Massimo D’Alema cerca di tagliare le gambe all’idea del «governo di cambiamento» con i grillini proponendo un patto col Pdl: l’unica soluzione realistica, a suo avviso.
Sulla carta è così. Le resistenze a sinistra nei confronti di un qualunque dialogo con il partito di Silvio Berlusconi, però, sono enormi. E la decisione del Pdl di scendere in piazza per protestare contro i magistrati che si accanirebbero contro il Cavaliere, è un macigno sul dialogo. L’ex premier del centrodestra suggerisce la riforma elettorale e l’immediato ritorno alle urne. E invita a fare presto perché la situazione economica potrebbe peggiorare ulteriormente. Non si capisce come sarà  possibile cambiare sistema di voto in presenza di un quarto di parlamentari grillini, dopo un anno di nulla di fatto. Non bastasse, il Movimento 5 stelle replica ad ogni offerta di alleanza con brutalità  e disprezzo.
Probabilmente già  guarda al prossimo appuntamento elettorale. E dunque frustra il tentativo di abbraccio del Pd. D’altronde, ieri il quotidiano Europa, organo del partito, ammoniva che senza maggioranza non c’è nemmeno incarico. Eppure, per il momento la traiettoria non cambia. Vasco Errani, presidente della regione Emilia Romagna, alter ego di Bersani, indicato come tessitore dei rapporti con Grillo, ribadisce che la proposta è quella di un governo di cambiamento: «Non proponiamo governissimi». E di fronte agli scarti del Movimento 5 stelle, afferma che sarà  il Parlamento il luogo in cui si capirà  se un’intesa è possibile o no. Ma la domanda è se sia possibile correre il rischio di una bocciatura che porterebbe l’Italia di nuovo a votare; e se qualcuno, e non solo Grillo, stia accarezzando questo esito.


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