Tra i seguaci delusi di Aung San Suu Kyi

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RANGOON. LA “Regina”, oppure “Ma Ma”, la madre, è vestita di verde col solito fiore fresco tra i capelli. «Se il popolo vuole che io mi candidi alla presidenza del Paese, così sia», dice col suo filo di voce. Il risultato del Congresso era scontato: Aung San Suu Kyi è stata rieletta a capo del partito e sarà  lei, fra due anni, la candidata al vertice dell’Unione del Myanmar, la Birmania ancora retta dai potenti ex generali impegnati a scrollarsi di dosso il lascito di cinque decenni di brutale dittatura.
Lei si muove con l’eterna grazia fuori del ristorante coperto da tende sgargianti, dove sparuti gruppi di militanti senza delega hanno ascoltato parte dei lavori dagli altoparlanti. Le “grandi manovre”, però, si sono svolte dietro le quinte nell’assemblea composta da 900 uomini e donne di ogni etnia. Eppure lì si sono alzati anche i primi mormorii, con l’accusa rivolta alla carismatica Nobel per la Pace di eccessivo verticismo, scarsa tolleranza verso il dissenso interno, mancanza di democrazia nella scelta della leadership del partito e, soprattutto, il silenzio sui grandi temi dei diritti umani nel Paese: sulla sorte del conflitto in corso nello Stato delle popolazioni Kachin, o sul regime di segregazione tra le comunità  buddiste e i musulmani Rohingya nell’Arakan.
Tutte recriminazioni che rischiano di offuscare la sua immagine, mentre Aung San Suu Kyi compie la difficile transizione dalla dissidenza alla politica, e si esercita in un delicato “balletto politico” con i militari. La Lady risponde imponendo l’elezione palese anziché segreta – del comitato esecutivo, formato da 15 membri fissi da lei prescelti. Una mossa che conferma il suo dominio, sgradita perfino a molti dei 150 membri del nuovo comitato centrale.
E tuttavia Aung San Suu Kyi non sembra curarsi troppo delle contestazioni. Salutata l’assemblea, scambia qualche battuta con la stampa, prima di avviarsi verso la
nuova capitale Naypyidaw.
Signora Aung San Suu Kyi, allora è vero? lei si candiderà  alla presidenza del Paese?
«Sì, se questo è il desiderio del popolo che mi sosterrà . Non c’è altra strada».
Com’è cambiata la politica del suo partito dopo il Congresso?
«Noi non modifichiamo la politica di base, da sempre fondata sui principi della democrazia, dei diritti umani e della riconciliazione nazionale. Cambieranno certi aspetti secondari: nel passato siamo stati un “Partito contro”, ora dobbiamo cambiare ogni forma di costrizione nel ruolo di oppositori ».
Si sono ascoltate molte critiche riguardo alla inadeguata rappresentanza dei giovani nel partito. Metà  della popolazione ha meno di 25 anni, però l’età  media del
Comitato esecutivo è di oltre 60 anni. È così?
«È vero. Ma nel nuovo comitato centrale ci sono molti giovani. Se nel Comitato esecutivo non sono tanti, è perché lì serve esperienza. Quanto ai giovani, ne avremo bisogno sia nel partito che nel Paese. Se poi vuole sapere quale sia la proporzione fra vecchi e nuovi membri, è difficile dirlo: sono tutti raggruppati in un unico elenco».
Cosa si aspetta dal nuovo Comitato esecutivo?
«Abilità  specialmente nel trattare con i gruppi etnici e le donne. Anche per questo abbiamo scelto persone più anziane, con l’esperienza che viene dalla conoscenza del nostro passato».
È vero che aumenta il fenomeno della terra espropriata alle popolazioni?
«Questa è una materia vasta e complessa: c’è una commissione parlamentare che sta indagando».
Riguardo alle future elezioni presidenziali, lei s’aspetta il successo dell’ultimo voto?
«Il sostegno del popolo viene dalla volontà  di cambiare. Ma è difficile dire cosa e dove potremo cambiare. Vedremo: una cosa alla volta».


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