Una catena di fallimenti per una clamorosa vittoria

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Lo dicono i dati analizzati da Ilvo Diamanti su Repubblica: le componenti più dinamiche degli elettorati di centrodestra e di centrosinistra si sono dissociate. Sono rimasti da una parte le casalinghe, dall’altra i pensionati.
C’è in primo luogo il fallimento del centrodestra: tra malgoverno, spregiudicate ruberie, volgarissimi scandali e infinite promesse non mantenute ai suoi elettori. Simmetrico è il fallimento del centrosinistra: autoreferenzialità  del suo gruppo dirigente, insufficiente diversità  morale rispetto al centrodestra, sostegno acritico al governo Monti, mancanza di una proposta politica minimamente appetibile: non una parola sul Mezzogiorno o sul declino del sistema industriale. Il terzo fallimento è quello del governo Monti: rigore spietato, ma nessun risanamento duraturo. I conti sono stati un po’ aggiustati, ma al prezzo di una micidiale mazzata al tenore di vita di gran parte della popolazione e di un altrettanto micidiale arresto della crescita.
Il quarto fallimento è quello del mondo imprenditoriale. Ne ha addossato la colpa alla politica, che ha gravi responsabilità , ma se l’Italia non cresce da almeno un quarto di secolo dipende dal fatto che solo una minoranza di imprenditori fa il suo mestiere investendo e innovando. E se non si cresce non si si rimborsa neppure il debito pubblico.
C’è poi il fallimento di una legge elettorale scellerata. Il centrodestra (allora c’erano pure Casini e Fini) la inventò per avvelenarne la vittoria del centrosinistra prevista alle elezioni del 2006. La legge ha di nuovo prodotto il medesimo effetto. Ciò che è grave è che il centrosinistra si era illuso che non gli convenisse cambiarla. Ed ha pertanto furbescamente avanzato proposte di cambiamento arzigogolate e improbabili, che i suoi avversari non avevano motivo di accettare. Lasciando in vita un sistema che, qualora il Pd avesse vinto, gli avrebbe consentito di governare col ristrettissimo consenso di un elettore su 5. Un’idea non solo poco democratica, ma offensivamente avventurosa.
L’ultimo fallimento è quello della costellazione politico-intellettuale-mediatica che da vent’anni pretende d’imporre alla democrazia italiana una dialettica bipolare. In realtà , il bipolarismo non c’è mai stato, ci sono stati due poli assemblati come capita e si sono in compenso avvelenati i rapporti politici e alimentate le spinte populiste. Nelle quali Berlusconi è maestro. Per contro si è rinunciato a una delle fondamentali risorse di un regime rappresentativo decente: i governi di coalizione. Non c’è solo il modello del pentapartito degli anni 80. Ci sono da parti coalizioni che funzionano e non si vede perché non dovrebbero funzionare anche in Italia.
In realtà , di fallimenti di cui gli elettori hanno motivo di dolersi ve ne sono molti altri. Ma questi bastano e avanzano per spiegare il successo di Grillo. Magari con l’aggiunta di un altro ingrediente, che sono i sondaggi. I quali da un anno davano il Pd decisamente in vantaggio. Alla vigilia del voto hanno messa in dubbio la maggioranza al senato, ma comunque si è data per sicura la stampella di Monti. Tali annunci dei sondaggi si sono rivelati elettoralmente disastrosi per il Pd. Che si è convinto di una vittoria certa e ha condotto una campagna elettorale opaca e reticente (e con candidature spesso discutibili). Mentre i suoi potenziali elettori, alla luce degli stessi sondaggi, hanno deciso di segnalargli il loro malcontento. Specie quella parte di suoi elettori che ne aveva abbastanza di Monti e che voleva scoraggiare la smania della dirigenza del partito di fraternizzare ancora con lui. Quanti tuttavia di coloro che hanno votato per Grillo, o si sono astenuti, volevano davvero che il paese divenisse ingovernabile?
Sta di fatto che in questo modo si è approntata una miscela che ha prodotto un successo così abnorme per Grillo che forse lui stesso non sa come gestirlo. Non è uno sciocco e sa bene che il suo è un elettorato di protesta e quindi effimero. Sa bene pure che non gli è stato affidato il mandato di rigenerare il paese, ma che è stato utilizzato quale portavoce di mille motivi di disagio. Il suo è pure un elettorato eterogeneo: i piccoli imprenditori delusi dalla Lega e dal Pdl che l’hanno votato sono tutt’altra cosa dai giovani precari che avevano finora votato Pd o sinistra radicale. Questi ultimi vorrebbero un lavoro stabile. I primi vorrebbero più flessibilità  e meno tasse. Difficile sarebbe soddisfare le attese di entrambi. Tanto più se, come qualsiasi leader politico che si rispetti, Grillo vuol salvaguardare la sua invenzione. Ovvero, farla durare nel tempo. Dare una mano al Pd per costituire un governo non solo metterebbe subito a rischio la sua credibilità  di oppositore di sistema, ma sarebbe soprattutto inviso a quella componente del suo elettorato che arriva da destra.
Paradossalmente, chi se la passa meglio è il Pdl. Voleva impedire la vittoria del Pd e, col suo aiuto, c’è riuscito. Adesso sta alla finestra, nutrendo la fondata speranza che, ove si rivotasse, un po’ dei suoi elettori tornerebbe a casa. È una speranza che il Pd farebbe male a nutrire, a meno che non rinnovi radicalmente la sua offerta politica. I suoi elettori sono più sofisticati di quelli del centrodestra. Non è gente che si accontenta delle battute di Renzi. Adesso che ha consumato la rottura, è verosimile che per tornare indietro desideri qualcosa di più sostanzioso. Ovvero qualcuno che prenda sul serio il suo messaggio. Che non è antipolitica, ma forte e chiara richiesta di una politica nuova: molto meno spregiudicata moralmente e molto più attenta ai problemi degli italiani. Il lavoro, per cominciare.


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