UN PARTITO FIN TROPPO NORMALE

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Fissato quando Roberto Maroni sperava – e contava – di celebrare un risultato elettorale migliore. Ieri, invece, il segretario, come molti dei relatori che si sono succeduti sul palco, ha dovuto ribadire che «la Lega non è morta». Inoltre, per dimostrare la volontà  di gettarsi alle spalle gli scandali del passato, ha mostrato e offerto ai militanti «i diamanti della Lega» – quelli di Belsito. Io, ovviamente, non c’entro…
Maroni, d’altronde, è stato eletto Presidente della Lombardia e la Lega governa, dunque, le tre principali regioni del Nord. Non a caso, il programma maggiormente evocato, in questa manifestazione, rivendica la “macroregione del Nord”. Eppure la “festa popolare padana”, quest’anno, è apparsa più triste del solito. Partecipata. Ma non troppo. Scossa da qualche contestazione – limitata. Anche Bossi, il Padre fondatore della Lega, non ha nascosto la propria insofferenza verso la leadership del partito. Prendendosela – in modo, come di consueto, colorito – con chi dice che «tutto va bene ». Non è così, evidentemente. Perché è difficile, ai leader e ai militanti leghisti, nascondere i segni della sconfitta subita alle elezioni politiche di febbraio. Quando, lo rammentiamo, la Lega ha ottenuto quasi 1 milione e 400mila voti. Cioè: oltre 1 milione e 600mila meno del 2008. Ha, dunque, più che dimezzato la sua base elettorale. Anche in termini percentuali: dall’8,3 è, infatti, scesa al 4,1. La Lega. Si è ridimensionata, soprattutto, nella sua patria. La Macroregione del Nord. Visto che, negli ultimi cinque anni, in Lombardia è diminuita dal 21,6 per cento al 12,9. In Veneto dal 27,1 al 10,5. In Piemonte dal 12,6 al 4,8. E la “caduta” appare ancor più forte rispetto alle Regionali del 2010, quando la Lega ha conquistato la presidenza del Veneto (con oltre il 35% dei voti) e del Piemonte.
Così, la Lega si trova di fronte a un paradosso apparente – che ho già  sottolineato all’indomani del voto. Cioè: rivendicare la Padania senza i padani. Conquistare la guida
delle principali regioni del Nord proprio quando i suoi elettori si sono ridotti sensibilmente. Toccando il minimo, in valori assoluti, dal 1992 ad oggi.
D’altronde, nei discorsi di Pontida, si sentono gli echi del passato. Le invettive contro Roma e contro lo Stato italiano. L’impegno a trattenere in Lombardia – e sul territorio – il 75% del prelievo fiscale. Promesse e minacce già  sentite. Come la rivendicazione federalista. Rilanciata a Pontida. Echeggia da sempre. Con nomi diversi. Indipendenza, devolution, secessione. In altri termini: autogoverno regionale. O meglio: macroregionale. Discorsi già  sentiti altre volte, in passato. Ma dopo dieci anni di governo quasi ininterrotto – dal 2001 al 2011 – diventa difficile crederci fino in fondo. Prendere questa Lega sul serio. Anche perché, se non si è spezzata ieri (e non si spezzerà  neppure domani), appare comunque divisa. Attraversata da tensioni evidenti. Che rendono arduo immaginare la Macroregione del Nord. Non solo perché non è chiaro come si dovrebbe realizzare. Attraverso quali procedure. E quali poteri e competenze dovrebbe assumere. Ma perché, prima ancora, si tratta di una prospettiva complicata per ragioni “politiche”. Visto che i leghisti oggi – più di prima – sono largamente “minoritari”, in queste regioni, dal punto di vista elettorale. E perché, soprattutto, sono distinti e distanti. I governatori, per primi. Cota, governatore del Piemonte: vicino a Bossi. E dunque molto meno a Maroni. Zaia, governatore veneto: in conflitto con Tosi. A sua volta, molto vicino a Maroni. Difficile concepire, su questa base, forme di integrazione istituzionale, fra governi e governatori regionali. E poi, se davvero la macroregione venisse istituita, quale ne sarebbe la capitale? Milano? Cioè: la città  governata dalla Sinistra? E Torino e Venezia – ma anche Verona – accetterebbero il ruolo di capoluoghi di secondo livello?
Al di là  di tutto, resta, però, la questione di fondo. La Lega si è “normalizzata”. In altri termini, si è trasformata in un partito “normale”. Come altri partiti. Più di altri partiti. Perché è radicata sul territorio, dispone di
molti iscritti, molte sezioni e molti militanti. E di molti eletti – sindaci, presidenti di Provincia, oltre ai tre governatori. Ciò le garantisce un buon grado di “resistenza”, anche di fronte alle crisi. E le permette di mobilitare ancora molte persone, alle sue manifestazioni, com’è avvenuto ieri. Anche se meno – e sempre più anziane – del passato. La Lega è, dunque, un partito-più-partito degli altri. Intorno ai suoi parlamentari, ai suoi governatori, ai suoi amministratori: c’è una rete di consulenti e collaboratori molto ampia. Come gli altri partiti, la Lega dispone di un ceto politico professionalizzato. Di una struttura, in parte, burocratizzata. Al tempo stesso, però, oggi appare diversa dal passato. Quando si presentava personalizzata, fondata (da e) su un leader carismatico. Umberto Bossi. Oggi, invece, appare acefala. Perché Maroni non è Bossi. È un leader. Non “il” leader. Il Governatore della Lombardia, ma non il Padre della Padania. La Lega, infine, è divisa in correnti – Bossiani e Maroniti. Rammenta altri partiti. Del passato più che del presente. L’alleanza con Berlusconi le ha permesso di vincere in Lombardia e di mantenere una presenza significativa a Roma. Ma non ha impedito, anzi ha forse accentuato, il profondo arretramento subito alle recenti elezioni. Ad opera, soprattutto e anzitutto, del M5S. Che ne ha eroso, profondamente, la base soprattutto nel Nordest e nel Nordovest. E ha quasi “espulso” la Lega dalle regioni “rosse”, dov’era cresciuta molto nel 2008. E l’ha rimpiazzata nella rappresentanza dei settori sociali tradizionalmente più vicini. I lavoratori autonomi e dipendenti della piccola impresa. La piccola borghesia artigiana e commerciale. Il M5S: ha sottratto alla Lega il monopolio della protesta contro il ceto politico. Il ruolo del partito anti-partito. Portavoce del “nuovo” in politica. Perché anch’essa – la Lega – è divenuta un partito sin troppo normale. L’ultimo rimasto, con lo stesso nome, fra i partiti della Prima Repubblica. In un Paese dove il malessere e la rabbia contro lo Stato e i partiti, ormai, non abitano più solo a Nord. Ma dovunque.


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