Il declino della destra vent’anni dopo lo sdoganamento di Fini

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Era il numero dieci, il fantasista, quello dai piedi buoni che mandava gli altri in gol. Allenatore, Teodoro Buontempo, «er pecora» scomparso da poco più di un mese. Istantanea simbolica, fortemente evocativa, che parla di un mondo che, politicamente, non c’è più. Lo dice un dirigente ex An, senza esporsi: «Quella storia, iniziata venti anni fa con la candidatura di Fini a sindaco di Roma, è finita». Dal ’93 al 2013, dal risultato dell’allora segretario del Msi che insidiò al ballottaggio Francesco Rutelli e il centrosinistra, alla — difficile — rincorsa di Alemanno su Ignazio Marino. «È la fine di un ciclo: questa è l’ultima partita, da cui ne può iniziare un’altra», ragiona l’ex aennino. Di sicuro c’è un fatto. Quel «blocco» politico, sociale, culturale, è andato in frantumi, in mille pezzi. E il sogno dei quegli ex ragazzi, che venivano spesso dalla militanza, dalle sezioni e da quella che loro definivano «la ghettizzazione», è rimasto chiuso nei cassetti. «Una grande occasione persa», dice un altro esponente, con incarichi di governo alle spalle. Secondo Andrea Ronchi «Berlusconi ha supplito alla carenza del Pdl, ma il Pdl non può essere solo Berlusconi. E invece da bipolaristi siamo passati a Monti federatore del centrodestra, poi siamo tornati al Cavaliere: abbiamo dato segnali schizofrenici». Ronchi è uno dei fondatori di An, ed è stato uno degli «inventori» della candidatura di Fini nel ’93: «Era il 5 luglio, stavamo a casa mia. Intorno a quell’intuizione, aggregammo mondi che non venivano dall’Msi: Publio Fiori, Potito Salatto, Gaetano Rebecchini, l’ex presidente dei costruttori Erasmo Cinque. Fini consentì di votare a destra anche a chi prima si sarebbe vergognato di farlo». Fu la mossa che «anticipò» il centrodestra, con l’endorsement di Berlusconi, la nascita di Forza Italia, la strana alleanza (seppur per interposta persona) con la Lega, la svolta di Fiuggi. Oggi, forse, siamo al capolinea. Ronchi non ci crede: «La destra non è finita. C’è un elettorato confuso, amareggiato, senza punti di riferimento. Bisogna riprendere il nostro compito, rimanendo parte integrante del centrodestra, tornando all’idea del ’94 del bipolarismo». Si vedrà . Per ora c’è la sfida a Marino («che vinca nella Capitale della cristianità  è un assurdo»), ma anche il momento dei bilanci, delle recriminazioni. E della dispersione in mille rivoli: Giorgia Meloni, Ignazio La Russa e Fabio Rampelli con «Fratelli d’Italia», Maurizio Gasparri e Renata Polverini nel Pdl che guarda ai berlusconiani, Andrea Augello e Gianni Alemanno che rappresentano l’altra anima del partito, Francesco Storace con La Destra. La foto di famiglia, in pratica, è strappata.
Secondo Silvano Moffa, il mediano di quella formazione, il «peccato originale è stato l’aver perso la capacità  identitaria, che doveva essere il nostro valore aggiunto». Tradotto? «La fusione con Forza Italia è stata più un’annessione, da parte loro…». Che altro? «Gli errori commessi da Fini. Non tanto la nascita di Futuro e Libertà , quanto l’idea di far cadere il governo quel famoso 14 dicembre». Dice uno dei colonnelli: «La tattica si è mangiata il cuore, eravamo tutti lì in attesa di sapere l’onda su cui voleva salire Gianfranco per fare surf…». Dopo l’uscita dal Pdl dell’ex presidente della Camera, «il partito è imploso», l’amara considerazione. Era il numero dieci, il fantasista, quello che trasformava una buona squadra in un team da scudetto. Cambiata maglia, e poi appesi gli scarpini al chiodo, lo spettro che si profila è quello della retrocessione.


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