L’arte di salire più in alto dove la vetta rende liberi

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Nel 1943, in piena guerra mondiale, tre prigionieri italiani in Africa evadono da un campo di concentramento inglese e scalano Punta Lenana, terza vetta del Monte Kenya, 4.985 metri sul livello del mare. Restano fuori 17 giorni, ridiscendono mezzi morti di fame e si riconsegnano agli inglesi. Uno di loro, Felice Benuzzi, funzionario coloniale e dopo la guerra diplomatico di buona carriera, narrerà  l’impresa in Fuga sul Kenya, che nella sua versione inglese, «No picnic on Mount Kenya», stesa da lui stesso e non del tutto coincidente con quella italiana, conoscerà  un grande successo internazionale. L’episodio ossessiona da tempo Santachiara, agente letterario e appassionato di alpinismo, che invia il volume di Benuzzi a Wu Ming 1. Sceglie lui non benché ma proprio perché, uomo di pianura, non sa nulla di montagna: una storia ha carisma se la sua singolarità  non interpella solo gli affini, ma riesce a toccare corde universali. L’esperimento riesce, e di qui la doppia proposta: salire insieme sulla Punta Lenana, scrivere questo libro.
La prima cosa richiede allenamento, un po’ d’ansia e qualche giorno di escursione. La seconda è più difficile e comporta quattro anni di lavoro. Perché intorno alla storia-lievito di Felice Benuzzi, Giovanni Balletto ed Enzo Barsotti ne concrescono molte, moltissime altre, in potenza l’intera storia dell’Italia del Novecento, riletta a contropelo fino far raggiungere al libro la ragguardevole proporzione di cinquecentocinquanta pagine, più quaranta di bibliografia ragionata. L’indagine spazia dalla Vienna di Franz Joseph in cui Benuzzi è nato alla Trieste in cui è cresciuto maturando il suo amore per la montagna. Si sposta a Roma, prosegue per l’Africa, raggiunge l’Australia e l’Antartide, ricostruendo insieme alla vita dei protagonisti le traversie di un’Italia che si affaccia nel peggiore dei modi — il colonialismo, liberale prima e fascista poi — sulla scena della politica mondiale, dall’irredentismo giuliano alle squallide e criminali campagne di Libia e d’Etiopia. Sulla scena si alternano, con la tecnica dell’entrelacement dei poemi epici, i tre ordinary people resi celebri dai loro 17 giorni di libertà , altri alpinisti chi famoso e chi oscuro, tra cui molti scrittori di vaglia, e poi d’Annunzio, Mussolini, Badoglio, Graziani, il Duca d’Aosta, Omar Al-Mukhtar, il Negus, la guerriglia abissina, i ribelli Mau mau contro gli inglesi… Scalate e conquiste, memorie e massacri, accostati più che non stretti in un rigido nesso causale.
Tra storia e storie non c’è un flusso omogeneo di senso. Più spesso vuoti, intervalli, interrogativi. Era fascista, per esempio, Benuzzi? In che misura il suo gesto, e più in generale l’ethos dell’alpinismo tutto, è apparentato alla prosopopea del primato, della conquista, della maschia romana volontà  di sottomettere? Accumulando incontri, interviste, letture e riflessioni, gli autori s’immergono in un arcobaleno di sfumature, lo sguardo sempre fisso all’evento-matrice: una fuga insensata, un atto libero e sovrano di sottrazione temporanea al comando — Benuzzi e gli altri non avevano alcuna possibilità  di evadere davvero, nel 1943 l’Africa italiana non esisteva più da un pezzo — che risponde solo a un impulso di gioia solitario (a lonely impulse of delight / drove to this tumult in the clouds, cantava Yeats). Un piccolo esodo, una scommessa senza fini, un’avventura che a differenza di quella coloniale non esige il sangue degli altri, e che al ritorno trova le parole per dirsi ma non per esaurirsi in una spiegazione.
Con una scelta felice, Wu Ming 1 e Santachiara non saccheggiano il libro di Benuzzi: l’impresa vera e propria non è raccontata (né parallelamente rivelano, nella cornice, cosa hanno trovato loro sulla Punta Lenana). Coperto da un’ellissi, il cuore della vicenda viene lasciato al suo silenzio, in disponibilità  per l’immaginazione, mentre la storia pubblica urla e stride sullo sfondo. Non da una battaglia ma da un’opprimente bonaccia sono fuggiti i tre prigionieri, ed è forse questo l’ombelico che connette quel frammento di passato, prima ancora che al suo tempo, al nostro presente. Nel 2009, scrive Wu Ming 1, mi sentivo sotto l’effetto di una perversa cappa aspirante che «risucchiava le energie buone e le disperdeva nello spazio, lasciando a terra i vapori nocivi, gli umori più cupi, le inettitudini più resilienti, i rancori più facili da coltivare»; una cappa che è ancora in funzione, e incolla in basso i corpi e le menti con quella mistura di accidia e sconforto che tutti conosciamo benissimo. Facile, ovvio, perfino comodo crogiolarcisi. Difficile invece è reagire. È di questa reazione — una reazione non risentita né subalterna — che si è fatta allegoria l’ascensione di Benuzzi e compagni.
Un’allegoria ben gestita, che elude ogni sovraccarico di significato. Non sono e non si sentono eroi gli eroi di questo libro, una patente che lasciano agli alfieri delle stragi. Non raggiungono la vetta più alta, non mirano alla gloria, non reclameranno per sé grandi spazi vitali a guerra finita. Non detengono il segreto della soluzione finale, espressione mostruosa se mai ve ne furono: «E tu volevi realizzarti in un’azione concentrata? Illusione! Esiste il campo di concentramento, ma non l’azione concentrata! L’azione che risolve veramente tutto, che realmente guarisce, non esiste», scrive Benuzzi, e miglior congedo non si può immaginare dal fascismo. Scesi dalla cima, tornano alla fatica dei giorni. Se qualcosa hanno imparato, se di qualcosa sono testimoni, è che un’alternativa, una ripartenza, una risalita è possibile ovunque. Non garantita, che è diverso, e non sempre: Benuzzi ha un lunga vita serena, Balletto muore suicida. Ora si tratta di convincercene noi.
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Il libro di Wu Ming 1 e Roberto Santachiara, «Point Lenana», Einaudi Stile Libero Big, pp. 596, 20 euro


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