Nakba, profughi nella loro terra

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GERUSALEMME «La legge israeliana permette agli abitanti di Iqrit di tornare al villaggio solo nella bara, per esservi sepolti, noi abbiamo deciso di farlo da vivi». Walaa Sbaid, giovane insegnante di 27 anni, ha deciso che avrebbe trascorso il 65esimo anniversario della Nakba (Catastrofe), tra ciò che resta della casa di suo nonno, tra quelle pietre che per lui raccontano più di mille libri, che sono una memoria indelebile. «E non ci starò solo oggi, ho deciso di realizzare il mio diritto al ritorno», spiega Sbaid che da qualche mese ha scelto, assieme ad un manipolo di amici, di vivere a Iqrit. Incurante dei divieti delle autorità  che non hanno mancato di demolire il pollaio che avevano costruito. «È un mio diritti, è un nostro diritto stare qui, è il nostro villaggio», afferma perentorio.
Sbaid e i suoi compagni sono «profughi nella loro terra», discendenti degli abitanti di questo villaggio cristiano all’estremo nord della Galilea, che nel 1948 non finirono nei campi profughi in Libano, Siria o in Giordania come altri 750 mila palestinesi. Rimasero nella loro terra ma furono «evacuati» dai militari del neonato Stato di Israele con la promessa che sarebbero rientrati alle loro case nel giro di una quindicina di giorni. Furono trasportati a Rama e non tornarono mai più. Proprio come accade a migliaia di palestinesi di Eid Hud (ora villaggio per artisti israeliani) e tanti altri centri abitati. La vigilia di Natale del 1950 l’esercito israeliano trasformò in macerie tutte le case di Iqrit lasciando intatta solo la chiesa e il cimitero. L’anno successivo la Corte Suprema israeliana sentenziò il diritto degli abitanti a ricostruire il villaggio «in assenza di motivi di sicurezza». Le autorità  di governo risposero decretando l’assoluta necessità  di tenere lontani quei civili da Iqrit. Nel 1953 furono distrutte anche le case del vicino Biram.
Le terre dei due villaggi andarono alla costruzione di nuovi centri abitati per gli immigrati e non certo per i palestinesi rimasti nello Stato di Israele, che nel frattempo erano diventati, nella terminologia ufficiale, «arabo israeliani». Le battaglie legali non sono servite a nulla, le decisioni alla base della distruzione di Iqrit e Biram erano politiche, strategiche e nessun giudice può cambiarle. La memoria però è sempre viva, tramandata di generazione in generazione, appena scalfita dal tempo. Lo dicono Walaa Sbaid e i suoi compagni «tornati» a Iqrit e tutti gli altri palestinesi in Israele, nei Territori occupati, nei campi profughi e nella diaspora, che da 65 anni chiedono giustizia, i diritti garantiti a tutti i popoli e che si ascolti anche la versione dei vinti e non solo dei vincitori.
Non sorprende perciò che ieri i palestinesi siano scesi in strada ovunque, anziani e bambini. Non a «protestare» come si legge da qualche parte ma ad affermare la loro esistenza attraverso il perpetuarsi della memoria della Nakba. Ieri a Gerusalemme Est la polizia israeliana ha schierato decine di agenti, molti dei quali a cavallo, per controllare un corteo pacifico di alcune centinaia di palestinesi che si sono radunati alla Porta di Damasco, l’ingresso principale della città  vecchia, per commemorare la Nakba. I manifestanti hanno provato a sfilare in direzione di Via Salah Edin ma sono stati fermati. Gli incidenti hanno causato alcuni feriti. Più gravi gli scontri esplosi in Cisgiordania, in modo particolare quelli avvenuti davanti alla prigione di Ofer (Ramallah), dove sono rinchiusi numerosi detenuti politici palestinesi: sette i feriti. A Qalandiya decine di giovani hanno affrontato con lanci di sassi i militari israeliani.
Manifestazioni si sono svolte anche a Ramallah, Betlemme, Nablus e in altre località .
 A Gaza si sono tenuti sit-in e cortei davanti alle sedi delle Nazioni Unite per reclamare l’attuazione della risoluzione dell’Onu 194 che sancisce il diritto al ritorno per i profughi palestinesi. Anche in Giordania, Egitto e Libano si sono svolte iniziative per la Nakba. Il fatto più significativo e più grave però sarebbe avvenuto a Damasco. Secondo un resoconto dell’accaduto fatto dalla televisione satellitare araba al Mayadeen, gli organizzatori delle commemorazioni volevano che la marcia partisse all’esterno del campo profughi di Yarmouk e che si dirigesse verso lo stesso Yarmouk per simboleggiare il ritorno al campo, dato che molti palestinesi sono stati costretti a lasciare le loro case a causa della guerra civile che insanguina la Siria. Una scelta che i ribelli anti-Assad avrebbero intepretato come un atto di accusa nei loro confronti (controllano parte del campo perciò esposto alle cannonate governative) e che, secondo Al Mayadeen, avrebbero aperto il fuoco causando scontri che avrebbero fatto quattro morti e 12 feriti. La notizia però non è stata riferita da altre fonti.


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