LO ZEN E L’ARTE DELLA POESIA

Loading

Ko Un è stato monaco buddista, vagò per la Corea come il più povero tra i poveri. Conobbe la disperazione e fu a un passo dal perdersi in quella resa all’alcol che gli tolse la speranza e il rispetto di sé. Ko Un è un grande poeta, tradotto in una quindicina di lingue, più volte vicino al Nobel. I suoi versi sembrano ali spezzate di uccelli, voci di montagne inscalabili, sussurri dalla profondità dei boschi. Hanno il nitore e l’asprezza della natura; la bizzarria e l’ironia dell’umano. A volte sono enigmi, altre – come notò Allen Ginsberg che lo conobbe – scoppi mentali.
È nato nella regione del Cholla a Sud della Corea, da una famiglia di contadini. Lo incontro a Venezia a Ca’ Foscari dove è ospite da un paio di settimane. Fa delle letture di poesie. A Roma sarà ospite, fra due sere, del Festival Letterature di Massenzio. Una sua raccolta edita da Nottetempo esce sia in e-book che in cartaceo (Cos’è?,
pagg. 134, 10 euro, traduzione di Vincenza D’Urso). Ko Un dimostra meno dei suoi ottant’anni. È magro, elegante, essenziale. Per tutta la conversazione calcherà un Borsalino di colore azzurro. Gli chiedo se lo indossa per un forma di civetteria. Non sa cosa la parola voglia dire. Un cappello è un dettaglio, come la scarpa al piede, un orologio al polso, un foulard al collo. Poi c’è il tutto. Sorride. Orientale, penso. Ma no, mi dico, cerchiamo di evitare i luoghi comuni. In fondo se la poesia ha un linguaggio universale è da lì che occorre partire.
«La mia poesia non è costretta in uno spazio né delimitata in un tempo. La ritrovo ovunque: sui monti sotto forma di neve, o nel mare quando diventa onda. Di sera la mia poesia è una stella. E quando entra nella storia si trasforma in evento. Nell’oscurità essa prende il posto del sole. È la mia piccola sorgente di luce».
C’è molta natura nel modo che Ko Un ha di rappresentare il proprio mondo poetico. Ma è solo un aspetto, dice; l’altro riguarda l’anima, il suo sé. Nulla esiste separatamente, spiega. Mi incuriosisce la soave determinazione di quest’uomo dalle molte vite e dalle tante rinascite. Così si racconta.
«Sono nato sotto la dominazione giapponese. È stato un duro apprendistato. Mi fu proibita la lingua madre. Non potevo né sapevo opporre resistenza. Frequentavo le scuole primarie e un giorno il preside mi chiese cosa avrei desiderato fare da grande. Risposi che sarei voluto diventare imperatore del Giappone. Mi punì severamente per l’inaudita arroganza di quel desiderio. Dovevo inchinarmi tutte le mattine al potere imperiale. Ma la sera, in cuor mio, veneravo i miei antenati».
Poi il paese si liberò dalla morsa giapponese. Era il 1945. Le potenze, uscite vincitrici dalla Seconda Guerra, si spartirono le zone di influenza. All’altezza del trentottesimo parallelo furono create due Coree. Due mondi contrapposti, due civiltà: «Era assurdo che un paese subisse una lacerazione così drammatica. Gli eventi incontrollati ci spinsero a una guerra fratricida. Era il 1950. Per tre anni ci combattemmo. Alla fine contammo tre milioni di morti. Ero un sopravvissuto. Vagavo disperato tra le macerie di città distrutte. Anche le montagne, a forza di bombardamenti, avevano mutato forma. Non c’erano più alberi. Non c’era più gioia. L’essere umano non aveva più nulla di umano. O si uccideva o si era uccisi. Sentivo crescere in me le rovine. Vagavo per il paese che aveva eletto la morte a proprio emblema. Era una percezione ossessiva che non mi abbandonava mai. La vita, pensavo, non aveva più valore».
Mi chiedo se non sia questa la vera essenza della poesia, quale che sia il linguaggio che adotti. Spesso l’opera, quando è grande, risponde a uno scacco. Alla disperazione che diventa a volte intenzione letteraria. Cosa turba la persona che ho di fronte? Cos’è che ci commuove nelle parole che pronuncia? Questa resa che non è resa. Questo nulla che non è nulla.
«Fu durante quei terribili momenti che incontrai per caso un monaco che era sceso dai monti. Provai un senso di attrazione. Lo seguii senza sapere bene perché. Lui, senza parlarmi, mi condusse da un famoso maestro. Si chiamava Hyo Bong. Nella vita civile era stato un giudice che dopo aver decretato una condanna a morte sentì il proprio animo sconvolgersi al punto che abbandonò la professione rifugiandosi nel buddismo. Mi lasciava libero durante il giorno e io vagavo chiedendo l’elemosina. La sera mi faceva studiare in modo severo. Fu la mia cura. Cominciai a cancellare, almeno in parte, i ricordi dolorosi che la guerra aveva provocato».
Ko Un aveva vent’anni quando divenne monaco buddista. Con la meditazione Zen si riconciliò alla vita. Venne così la prima salvezza. Poi arrivò la letteratura. In mezzo ancora disperazione. Poteva la vita artistica sostituire quella religiosa? «Mi misi nuovamente in cammino. Su di un’isola, a sud della costa coreana, diressi una scuola di beneficienza. Ma tornavano antichi fantasmi. Soffrivo di insonnia. Mi ubriacavo pesantemente. Fu a quel tempo, eravamo alla metà degli anni Sessanta che scrissi un lungo poema che intitolai Nirvana».
Poi vennero raccolte di poesie e racconti. E una nuova depressione e con essa un tentativo di suicidio: «Ingerii del veleno, mi risvegliai dal coma in ospedale. I miei scritti cominciavano ad essere famosi. Divenni un attivista indipendente per la difesa dei diritti umani. Fui arrestato e torturato. Infine liberato quando il regime cadde. Era il 1982».
Ko Un parla di sé come il vento parlerebbe alle montagne o ai mari. Le parole si gonfiano e volano sotto la spinta dei ricordi. Dice che ha scritto tantissimo e per questo lo chiamano “Kobong”, che è la vetta della montagna, che egli ha raggiunto un libro dopo l’altro. Debuttare nella scena letteraria non gli fu facile. Avvenne dopo un digiuno di un mese per protesta contro il regime dittatoriale. Poi salì su un monte e si raccolse in meditazione. Doveva decidere se continuare la vita monastica o intraprendere quella artistica: «Quando scelsi la poesia, fu come uscire nuovamente dall’utero».
Ora sta lavorando a un dizionario di lingua coreana che raccoglie le parole del Nord e del Sud della Corea. Gli chiedo un giudizio sulla divisione di un paese permanentemente in fibrillazione: «Le nostre lingue hanno un’origine comune; ma il sistema politico le ha rese diverse e ostili. Rischiano di allontanarsi sempre di più. Riconciliare questi due mondi non è un problema di oggi ma di domani. Nel domani si annida la speranza che le cose cambino. Nell’oggi c’è la pena del presente».
Un detto del Budda recita: siamo ciò che pensiamo e tutto ciò che pensiamo è prodotto dalla nostra mente. Quella di Ko Un è fervida e chiara. Sembrano lontani gli anni della disperazione, dell’alcolismo, dei suicidi tentati. Ha sposato una donna che ora siede silenziosa accanto a noi. Ha una figlia. Gli chiedo infine quanto del buddismo che ha praticato si ritrova nella sua poesia: «Il buddismo esige che il suo nome stesso a un
certo punto venga cancellato. Se al termine del suo cammino il buddismo desse di sé una forma avrebbe fallito il suo compito. La statuaria buddista che si sviluppò nella regione del Gandhara risentì dell’influenza di Alessandro il Grande e quindi della Grecia. È lì che è nata la forma. Ma il Budda storico, poco prima della morte si raccomandò ai suoi discepoli di non ricordarlo per la sua immagine ma per le sue parole. L’opera perfetta è quella che non lascia tracce». È questa la bellezza? Ko Un sospende le mani nel-l’aria: «La bellezza – conclude – vince su tutte le cose. E ogni cosa perde di fronte alla bellezza. Non è nessuno dei valori di questa terra, nessuna delle forme che conosciamo. Il mistero la inghiotte. Ed è bene che in questo mondo alcuni misteri o segreti non vengano rivelati. Se pretendessimo di spiegare tutto più nulla nascerebbe».


Related Articles

Le inchieste contro vento capolavori di giornalismo

Loading

L’anticipazione/ Un brano dall’introduzione  Quelle inchieste contro vento capolavoro di giornalismo

Gramsci, mille e una eresia

Loading

Lo «spettro» dell’intellettuale sardo sta ancora agitando le acque della storia. Eterno dissidente, viene visto come capo della classe operaia, martire antifascista, padre della politica unitaria, alfiere dell’eurocomunismo

IL REGISTA SOVIETICO PERSEGUITATO DA TUTTI

Loading

Un saggio racconta la vicenda di Mejerchol’d fucilato nel 1940 in Urss

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment