Battuta di caccia in bassa padania

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«Pazzesco… ma dici che ci vive della gente lì dentro?»
«È una fabbrica, Amerigo. Semmai ci sono gli operai». 
«Pensavo fosse Ferrara».
«È Ferrara… cioè, è il suo polo petrolchimico…» 
«Non la città , quindi…»?
«Sei un intuitivo, Amerigo». Sars riguardò la foto che aveva fatto. Luci impazzite su uno sfondo nero. Spinse il tasto elimina e rimise il cellulare in tasca. Il suo nome era Dario ma gli amici, quelli veri, lo chiamavano Sars, e lui ne andava fiero. Si era preso il virus in Thailandia, durante la sua vacanza annuale in compagnia delle go-go girls più minorenni che aveva trovato nei bar di Patong Beach, ma era sopravvissuto, dimostrando al mondo intero, o almeno a parenti e conoscenti, che il Vero Uomo Padano, cosa che lui si sentiva, sopravvive a tutto, anche alla regina delle polmoniti. La Sars, roba da mammolette asiatiche e da polli.
«Speriamo solo ne valga la pena. Abbiamo fatto un mucchio di chilometri – disse -. ?Mi dispiace aver perso la partita della nazionale». 
I due arrivavano da Sarezzo e per la sortita in terra emiliana avevano rinunciato all’amichevole che la compagine calcistica della Padania avrebbe giocato contro il team dell’autoproclamata Occitania allo stadio di Lumezzane, a pochi chilometri da casa. Era una partita in preparazione del prossimo campionato mondiale dei Popoli Senza Nazione, realtà  geografiche non riconosciute da quegli spocchiosi snob della Fifa. Per tre edizioni consecutive la Padania, guidata dal comandante Renzo, aveva vinto la finale, poi, per problemi finanziari inventati da Roma ladrona, la squadra aveva dovuto rinunciare a partecipare all’edizione in Kurdistan, ma avrebbe partecipato ai campionati a Gozo, nel 2013, e avrebbe fatto il culo a tutti, soprattutto a quegli africani arraffoni del Regno delle Due Sicilie.
«Cazzo, un bel match contro l’Oceania», disse Amerigo, svoltando in un ampio viale che conduceva alla stazione.
«Occitania. Sai dov’è, Amerigo?»
«Vicino al Pakistan?»
Sars sospirò.
«No? Comunque chi se ne frega dove cazzo è questa Ocetanea. Speriamo bene nel fratello».
«Fratello è un nome da negri, Amerigo».
«Compare?»
«Da terroni».
«Compagno?»
«Secondo te?»
«Ok, il collega padano, ti piace?»
«Sei permaloso, Amerigo».
«E tu un puntiglioso».
* * *
Roberto Filippi, «il collega padano», li aspettava davanti al bar Fiorella, il ricettacolo degli sconfitti della notte: papponi, ubriaconi, prostitute. Guardava l’entrata deserta della stazione ferroviaria e l’alto profilo dei due grattacieli che la sovrastavano. L’umidità  saliva dal terreno. Sciami di zanzare si aggrappavano a qualsiasi cosa si muovesse. Un’afa impalpabile e appiccicaticcia sui vestiti e sulla pelle. Ferrara, clima tropicale. Ferrara come uno di quei lontani luoghi esotici pieni di motorini e zampironi. 
Sbuffò. I due erano in ritardo. Si erano conosciuti su Facebook, all’interno del gruppo che Roberto aveva creato: «Tendopoli padana», un luogo virtuale di discussione che al suo interno annoverava anche qualche pezzo grosso della Protezione civile, qualche assessore dei comuni della bassa ferrarese e tanti cittadini esasperati dall’inciviltà  dei musulmani alloggiati nei campi degli sfollati allestiti dopo il terremoto di maggio. «Tendopoli padana» cercava di dare solidarietà  verbale con slogan efficaci e pungenti sul genere di «Via i negri dall’Emilia». Sars e Amerigo avevano letto l’appello di Roberto che chiedeva un aiuto pratico per cacciare dalle tendopoli gli stranieri. C’era stato qualche scambio di mail, poi la decisione di passare all’azione. 
Roberto li aspettava in un bagno di sudore. Un pizzicore insistente sulla mano. Una maledetta zanzara tigre. La schiacciò, poi l’avvolse nel chewingum che stava masticando e gettò la pallina molliccia in un tombino.
A qualche metro di distanza un Suv nero parcheggiò sulle strisce pedonali. Dalla macchina scesero due uomini. Il guidatore era piccolo e curvo, la pelle del volto completamente butterata, capelli neri lunghi e unti come una padella per fritto, lo sguardo di un cane bastonato. Portava una tuta verde, di due taglie più grandi, e scarpe da tennis sfasciate. L’altro aveva una rada barbetta rossa, le orecchie a sventola e una mascella prominente. Indossava una t-shirt bianca e jeans stinti. Ai piedi calzava stivali Camperos di cuoio. 
I due si avvicinarono.
«Sei tu Roberto?», chiese quello con la barbetta.
«Sono io. Volete bere qualcosa prima di entrare in azione?»
«Sì». 
«Venite con me al bar. Vi illustrerò il piano». 
* * *
La fauna di borderline del bar Fiorella era variegata: un ragazzo campione dell’acne con indosso una maglietta degli Iron Maiden che mangiava un gelato. Un uomo di mezza età , basso e anonimo, col sorriso storto e i denti gialli di nicotina che cercava di imbonire una donna dell’est in vestito giallo e sandali di corda. Un barbone in ciabatte che puzzava come una discarica a cielo aperto. 
«Che posto di merda», commentò Sars bevendo un sorso della sua birra ghiacciata.
«Lo so – disse Roberto -. È per dare meno nell’occhio».
«Se lo dici tu…»
Su uno sgabello una prostituta africana parlava con il barista, accavallava le gambe, rideva. Il bagno, segnalato da un’assurda luce azzurra al neon posizionata sopra la porta, era un via vai di tossici che entravano a coppie e poi uscivano con gli occhi spenti e il passo ciondolante. 
«Veniamo a noi – disse Roberto -. In questi giorni ho fatto molti sopralluoghi. La tendopoli di Sant’Agostino pullula di arabi e negri, ma è blindata, per entrare bisogna avere il pass, anche alla notte. Pensate che quei babbei dei volontari hanno allestito una moschea e non danno da mangiare carne di maiale agli arabi… i principini. Quei bastardi non hanno nemmeno avuto danni a casa, ma usufruiscono del vitto e dell’alloggio dei campi sfollati».
«Sanguisughe», commentò Amerigo prosciugando la sua birra con soddisfazione.
«Inizieremo dalla tendopoli di San Carlo – proseguì Roberto -. Non ci sono controlli e potremo agire indisturbati.
«E lì ci sono arabi?», chiese Sars osservando la prostituta africana accavallare le sue lunghe gambe.
«Sembra di essere alla Mecca». 
Uscirono dal bar Fiorella. I tre raggiunsero una piccola utilitaria rossa. Roberto aprì il cofano.
Una macchina passò a tutta velocità  lasciando un’assordante eco di musica pop che andò a mischiarsi alle nuvole vaporose che salivano dall’asfalto e si dissolvevano nell’aria. 
Un lezzo micidiale investì come un uppercut le narici di Sars e Amerigo. Roberto teneva in mano un sacchetto di plastica che aveva estratto dal cofano dell’utilitaria.
«Ecco qui la nostra arma segreta. È macinato di maiale che ho tenuto sotto il sole per due settimane. Cinque chili di polpette anti-arabo, con ripieno di vermi e dei microbi più potenti che la putrefazione possa creare».
«Che puzza…», borbottò Amerigo tappandosi il naso. 
«Sono cento polpette. Intorno a ognuna ho legato con lo spago un bigliettino. Ve lo leggo…», Roberto fece per aprire il sacchetto. Sars gli mise una mano sul braccio: «Non te lo ricordi a memoria senza dover aprire quell’immondezzaio?»
«Sì, certo: “Arabi Go Home”».
«’sti cazzi…», Sars guardò la prostituta africana uscire dal bar Fiorella e dirigersi verso i grattacieli. 
«Sono l’unica cosa buona di questo posto. Le puttane, intendo – disse Roberto -. Dopo, se volete, vi porto da un paio di nigeriane pazzesche».
«Le asiatiche ci sono? A me piacciono le asiatiche», disse Sars. Sentì un pizzicore sull’avambraccio. Fece esplodere la zanzara con una manata violenta. Città  umida. Afosa e piena di zanzare. Una stronza città  malsana.
* * *
Paride Buzzoni amava due cose, ed entrambe vertevano in una situazione precaria: il suo roseto e Berlinguer, il suo vecchio pastore tedesco, cieco e con l’apparato olfattivo fuori combattimento, nato tre giorni prima della svolta della Bolognina. Ventitré anni, quasi un highlander per essere un cane. Il roseto e Berlinguer soffrivano enormemente il caldo e alla notte Paride, che non dormiva perché aveva paura delle scosse di terremoto, dava da bere a entrambi. Stava lì con loro, nel giardino di casa, accarezzava il manto sporco del cane, parlava alle rose, guardava il campo sfollati dall’altra parte della recinzione. Pensava a quei poveretti senza più una casa, gli mettevano tristezza. Lui era stato fortunato, la sua abitazione era uscita indenne dalla violenza sismica, l’aveva costruita lui, tanti anni prima, muri stabili, sicuri, mica come quelli dei capannoni industriali che erano crollati uno dopo l’altro. Paride in quei giorni pensava con rammarico che il terremoto era un’allegoria sulla fine del cooperativismo rosso nella bassa ferrarese. 
Vide una macchina fermarsi davanti a casa sua. Ne scesero tre uomini. Parlavano piano, ridacchiavano. Sentì un «lancia le polpette a quei maiali». Poi vide piccoli oggetti scuri sorvolare il suo giardino per finire al di là  della recinzione, all’interno del campo sfollati. 
Paride si avvicinò ai tre sconosciuti, ma alle sue spalle sentì un guaito. Si voltò, Berlinguer stava agonizzando a terra. Corse dal suo cane e vide che in bocca aveva un pezzo di carne puzzolente. Sul prato mezza polpetta avariata legata con dello spago. Un biglietto. «Arabi Go Home». Berlinguer era morto. Sul terreno del campo sfollati decine di polpette anti-arabi illuminate dalla luna. 
«Andiamo dall’altra parte», disse una voce. 
Paride si destò. Una rabbia accecante gli stava facendo esplodere le tempie. Vide il Suv ripartire verso il lato sud del campo. Corse al suo garage. L’Apecar, la Twingo, il trattore Steiger. Ci pensò mezzo secondo e salì sul trattore. Tagliò per i campi, devastando tutto quello che gli si parava davanti. Una linea retta che schiacciava il grano e seminava vendetta.
* * * 
Il commando padano era fermo davanti allo stagno sul lato sud della tendopoli di San Carlo. Sars fumava una sigaretta, Amerigo e Roberto, muniti di guanti, lanciavano polpette dentro il campo.
«E se adesso andassimo a troie?», propose Sars.
Prima che gli altri potessero rispondere, un boato assordante giunse dalle loro spalle.
«Cazzo, il terremoto!», gridò Roberto lasciando cadere le polpette.
Una massa gigantesca arrivò a tutta velocità  e colpì violentemente il Suv sulla fiancata destra, trascinandolo con sé dentro allo stagno. Il trattore e la macchina sprofondarono nelle acque salmastre. Un uomo uscì dallo stagno, era illuminato dalla luce lunare, si avvicinò ai tre borbottando parole sconnesse: «Ma vì cupà  Berlinguer, cav’ngnis al zamor, aldamà r!»
«Cazzo, è un arabo infuriato!», esclamò Amerigo.
Paride gli fu addosso e con una testata lo fece crollare a terra. Si voltò e colpì Sars con un pugno allo stomaco. Roberto cercò di scappare, ma Paride si tuffò e gli placcò le gambe. Prese una polpetta, gli andò a cavalcioni e lo costrinse a mangiarla. Poi andò dagli altri due, doloranti a terra, e obbligò anche loro a inghiottire la carne putrefatta. 
Si alzò in piedi. Afa, zanzare, luna piena. 
Paride si allontanò attraverso i campi. Dietro di lui il silenzio della campagna era rotto dagli spasmi agonizzati dei tre dell’intraprendente commando padano.


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