Nella trincea del 38° parallelo

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SEUL. Nel “museo del Novecento sospeso” ogni reperto, mentre a Nord e a Sud la storia corre e spazza il mondo, viene amorevolmente conservato. Gli eserciti di Pyongyang e di Seul, dove oggi fedelmente servono i nipoti dei reduci di guerra, replicano la surreale messinscena di quella che i libri già catalogano come «il surrogato mai combattuto della terza guerra mondiale». È il macabro palcoscenico, per soldati, turisti e spie, del 38° parallelo: anticipato da montagne di filo spinato arrugginito, protetto da 248 chilometri di muro da cui crollano pezzi di cemento, ornato con vecchi carri armati e con una locomotiva tolta dai binari, simbolo di due capitali prossime ma irraggiungibili. Per arrivare ai binocoli fissi, lasciati lungo il confine a scrutare il nemico, si superano stanchi posti di blocco, la baracca di ferro ancora utilizzata per i negoziati di pace, il “ponte senza ritorno” su cui furono scambiati i prigionieri che optarono per il rimpatrio, i “tunnel d’infiltrazione” attraverso i quali avrebbe dovuto riprendere l’avanzata rossa.

C’è anche una piccola “esposizione della guerra fredda”, con annesso negozio di falsi souvenir. Il luogo ideale, per un tuffo nei conflitti del secolo scorso. I due chilometri della cosiddetta “zona demilitarizzata” sono però uno dei luoghi più armati del pianeta, tagliano realmente il mondo a metà, eredi estremi del Muro di Berlino, e oltre lo show si nasconde una guerra viva e crudele. Un museo storico costruito sulla contemporaneità della cronaca: è qui, lungo la frontiera che separa la Corea del Nord da quella del Sud, che l’unico popolo del mondo rimasto diviso con la forza, ricorda domani l’anniversario dei 60 anni dalla sospensione di un conflitto su cui ancora nemmeno il nome si concorda. Guerra civile? Invasione del “mondo libero” su procura di
Stalin? Resistenza? Prima “missione di pace” americana, per fermare il comunismo sotto l’ombrello dell’Onu e accelerare la crescita dalla Nato? O autentica prova generale della «guerra fredda», risolta nell’89 in Europa, ma lasciata languire in Asia, dove Pechino ha rilevato il ruolo di Mosca dopo l’implosione dell’Urss? Un anniversario così surreale, riferito a un evento che continua, al punto che a Seul e a Pyongyang le contrapposte propagande neppure sanno come chiamare gli eventi organizzati. Celebrazioni? Commemorazioni? Adunate? Rievocazioni? O più semplicemente comizi e spettacoli patriottici in vista delle prossime battaglie? Un imbarazzante “morto vivente”: perché l’armistizio del 27 luglio 1953, che interruppe il massacro scoppiato il 25 giugno 1950 e che nella penisola coreana falciò oltre un milione di ragazzi, continua a non avere vincitori ufficiali e minaccia di trasformarsi nella miccia per lo scontro tra le superpotenze che ambiscono a dominare anche il secolo in corso.
A poche ore dall’anniversario che testimonia l’incapacità dei cosiddetti “Grandi” di costruire una pace per la gente, il 38° parallelo che unisce il Mar Giallo a quello del Giappone rimane così il confine più esplosivo e imbalsamato del pianeta. Solo pochi metri di terra, gonfia di mine, separano le sentinelle del Sud che, dal villaggio di Panmunjeom, da sessant’anni controllano quelle del Nord, in piedi sulle torrette di Dorasan, oltre il fiume Imijingang. Divise, riti e slogan sono quelli apocalittici di ieri, adottati da Roosevelt e da Stalin sulla pelle di un popolo appena liberato dall’impero del Giappone, e anche i nuovi protagonisti di questo “deserto dei tartari” fondato sulle armi atomiche sembrano essere stati rigurgitati dal passato.
In Corea del Nord, a 101 anni dalla nascita di Kim Il-sung, regna ancora uno degli eredi della sola monarchia comunista ereditaria della storia: Kim Jong-un, 30 anni, nipote del mitizzato “padre della patria inviato dal Sole”, succeduto da un anno e mezzo all’“Eterno leader” Kim Jong-il, oggi giovane Maresciallo e “dittatore bambino” impegnato a rinnovare l’arsenale nucleare e la protezione di Pechino e Mosca. In Corea del Sud, da dicembre, domina invece la conservatrice Park Geun-hye, prima donna presidente a Seul, nata un anno dopo la sospensione della guerra e primogenita dell’ex dittatore Park Chung-hee, assassinato nel 1979 dai servizi segreti di Pyongyang, oggi decisa a riarmare il Paese e a ridiscutere l’alleanza con gli Usa. Non che una data possieda il taumaturgico potere di superare un’era, ma 60 anni dopo la fine convenzionale della guerra combattuta, la Corea appare come l’icona del fallimento anche del tempo che il mondo dei “due blocchi” ha consegnato alla globalizzazione.
La spettrale Pyongyang, dove cibo e luce restano razionati, celebra il suo “trionfo” costringendo in piazza Kim Il-sung oltre due milioni di soldati e di “volontari” del regime, addestrati a cantare davanti alla tivù «l’inevitabile scontro e la certa vittoria contro gli imperialisti schiavi dell’America». Kim Jongun, inaugurato il luna park «più grande del mondo», segue tour propagandistici ristretti a «selezionati giornalisti stranieri», riceve il vice presidente cinese Li Yuanchao e offre «interviste esclusive» per un milione di dollari. L’elettronica “Samsung-Seul”, a un centinaio di chilometri di distanza, esalta invece la propria avanguardia e la crescente potenza economica organizzando mostre, banchetti e concerti, happening di reduci e interviste con i disertori, incontri con spie pentite e famiglie ancora divise dalla frontiera tracciata a tavolino dai leader di un mondo che non esiste più. Un’orgia di retorica e di propaganda, di attori e di professionisti del dissenso, come a Berlino negli anni Settanta, in cui le notti buie, la fame e la repressione del Nord si contrappongono ad un Sud illuminato a giorno, epicntro del “consumismo Gangnam Style” e presidio della democrazia nell’Estremo Oriente continentale. Il Male opposto al Bene, i campi di prigionia contro gli shopping centre, a seconda di chi giudica, mentre una popolazione interconnessa, sempre meno sensibile alle parole d’ordine dei quartieri generali, dichiara semplicemente di sognare, secondo un sondaggio dell’ateneo di Seul, «solo la pace, il ricongiungimento popolare e la riunificazione nazionale». «Proprio ciò — dice Joeng Kep-young, rettore della Yonsei University — che fuori dalla penisola coreana nessuno sembra volere». Questo anniversario blindato lo conferma.
Dopo sei decenni di “tavoli” e di “comitati”, tra Nord e Sud la tensione è al massimo. Ai test missilistici e alla rinnovata minaccia atomica di Pyongyang, l’Onu ha risposto con nuove sanzioni economiche, pretese dagli Usa e dal Giappone, contro l’instabile regime militare di Kim Jong-un. Cina e Russia, votate per la prima volta le misure, sono impegnate ad aggirarle per rafforzare la dipendenza dell’alleato del Nord. Da marzo lo stesso armistizio del 1953 è stato dichiarato «nullo» dai nordcoreani, Seul e Pyongyang sono ripiombate «tecnicamente nella guerra», le linee telefoniche dirette tra i leader sono state tagliate e il complesso industriale congiunto di Kaesong, frutto della “politica del raggio di sole” di fine anni Novanta, rimane chiuso. «Certo c’è poco da celebrare — dice il premier sudcoreano Jung Hong-won — ma ringraziare è giusto: senza l’intervento e il sacrificio dei soldati di ventuno nazioni democratiche, tra il 1950 e il 1953, il mondo sarebbe un altro e anche il Sud sarebbe finito nell’orbita sovietica. Libertà e dittatura restano scelte diverse e mostrare a tutti il luogo fisico dove esse continuano a scontrarsi, con esiti opposti per gli individui, è una lezione di assoluta attualità».
Gli stessi media di Seul, alla vigilia dell’anniversario, ricordano però che l’armistizio di 60 anni fa ha generato il più impressionante
riarmo della storia. Il Nord vanta un milione di soldati e un milione di riservisti, 4200 carri armati, 7900 pezzi d’artiglieria, 2500 blindati, 1500 aerei da guerra, 770 navi e tre siti atomici segreti. Il Sud conta un esercito di 560 mila effettivi, 2360 carri armati, 5180 tra missili e cannoni, 2400 blindati, 883 aerei e 174 navi. A questi arsenali, per Pyongyang si aggiungono quelli nucleari di Russia e Cina, per Seul le forze Usa, che solo sulla penisola mantengono un base con 22 mila marines e quasi mille mezzi militari dotati di testate atomiche. Nessun pezzo di mondo è oggi oppresso da un apparato bellico tanto distruttivo e nella “Casa della pace”, che accoglie i visitatori lungo il 38° parallelo, scorrono le immagini di Stalin e di Mao (che qui perse il primogenito), del “bambino Kim Jong-un” e del neo leader cinese Xi Jinping, di Truman e del generale MacArthur, di Park Geun-Hye e del presidente Usa Barack Obama, gli artefici della guerra e i custodi della sua eterna sospensione. Il problema — dice lo storico Hyung Gu Lynn — è essersi abituati a uno “scenario coreano” di apparente pace armata. Lo si prende come uno spaccato vintage della guerra fredda, una sorta di dinosauro novecentesco in gabbia, da esibire per riportare la calma. Invece è un fronte caldo sempre più esplosivo, che anticipa il prossimo scontro di questo secolo».
Nella “Jsa”, area di sicurezza congiunta a Panmunjeom, dal 27 luglio 1953 le sentinelle del Nord e del Sud si guardano immobili, a tiro di fucile, e anche oggi i turisti scattano fotografie usandole da sfondo, come si fa a Londra con il cambio della guardia reale. Sopra i cecchini coreani, per l’occasione in tenuta da parata, incombono però l’espansione mondiale della Cina, il ri-orientamento militare degli Usa nel Pacifico, la rinascita della Russia, il neo-nazionalismo bellico del Giappone, la crescita economica di tutto il Sudest asiatico. «Tra i padroni del pianeta — dice Moon
Jae-in, ex braccio destro del defunto presidente sudcoreano Roh Moo-Hyun — non uno che abbia interesse ad un disarmo reale delle due Coree, alla pace e alla riunificazione di un popolo lacerato».
Pechino e Mosca temono una “democrazia alle porte”, Washington la fine dell’incubo atomico che autorizza le sue basi in Oriente, Tokyo e le nuove “tigri” dell’Asia la nascita di una super-potenza industriale, Pyongyang il crollo della dinastia dei Kim, Seul il prezzo dei «fratelli rimati poveri». Ultimi garanti della pace armata e primi sponsor della guerra dosata. «Solo che qui, nel nome degli interessi dei più forti sono trascorsi 60 anni — dice Choi Yon-hee, prigioniero del Nord che ha scelto di non tornare e che non ha mai rivisto i propri figli — ma nessuno nel resto del mondo scende in piazza per chiedere che 73 milioni di coreani non siano condannati a sopravvivere con i missili dei fratelli sulla testa».
Anche domani, per ricordare il cessate il fuoco, non una parola di distensione tra Pyongyang e Seul. La guerra travestita da pace continua, ma il vestito costa sempre di più e le sta ogni giorno più stretto. Per questo camminare lungo il 38° parallelo tra i cannoni e i fili spinati che proteggono l’armistizio della “terza guerra mondiale in miniatura”, ancora faticosamente rinchiusa in Corea, non aiuta oggi ad assolvere gli errori della storia: però «fa paura e illumina oltre», come diceva il Nobel per la pace Kim Dae-Jung. Solo questa «invisibile paura illuminante», dopo sessant’anni, qui resta nuova e andrebbe infine ascoltata.


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