Afghanistan: la lunga e travagliata transizione va avanti. Zoppicando

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E neppure che funzionari americani in giacca e cravatta si incontrassero con persone che si auto-definiscono “rappresentanti” dell’Emirato Islamico d’Afghanistan, una entità sepolta dal 2001, quando furono cacciati dal potere. E così, nel giro di una settimana, la graziosa villetta nel Golfo Persico, circondata da un bellissimo prato “quasi” all’inglese, che aveva fatto sperare (in pochi per la verità) nella possibilità di un accordo tra le parti è stata chiusa.

Arrivederci e alla prossima puntata. Uno dei primi passi sulla “via dell’estate 2014”, è finito senza neppure cominciare. E non è un caso, forse, che il presidente Obama stia pensando alla “zero option”. Che significa: via tutte le truppe dal paese. Attualmente in Afghanistan sono rimasti circa 100mila soldati provenienti da 48 paesi, tra cui 66mila americani. A fine 2013 le forze internazionali saranno dimezzate ed entro la fine dell’estate le truppe da combattimento lasceranno il paese. Incoraggiati dal ritiro i Talebani hanno aumentato i loro attacchi contro le forze afghane. Soprattutto nei luoghi in cui i soldati stranieri hanno già completato il ritiro passando le consegne ai colleghi afghani. Soltanto venerdì scorso 15 persone, tra cui 7 membri dei servizi di sicurezza sono state uccise.

Ma se è vero ché il programma di “disengagement” prevede la partenza delle truppe da combattimento e il passaggio dei poteri agli afghani, è anche vero che gli americani avevano previsto, inizialmente, di rimanere nel paese con una presenza di circa 20mila soldati, con compiti di addestramento, supporto aereo ed evacuazione medica alle truppe di casa. Una “opzione zero”, adesso, significherebbe che gli afghani diventerebbero responsabili di se stessi. Una politica, quella degli Stati Uniti, forse dettata anche dalla spinosa questione dell’immunità legale per le truppe straniere. Un argomento delicato da trattare e molto sentito a Kabul. Soprattutto quando a fare la guerra sono i droni guidati da un computer a 10mila chilometri di distanza. E poi c’è anche il malcontento del presidente Karzai che, se è vero che tra nove mesi finirà la sua avventura, è forse anche vero che per togliersi di dosso quella brutta reputazione (a volte ingiusta) di servilismo verso gli Stati Uniti, sta sparando sui “generosi” alleati a stelle e strisce.

In realtà la questione che molti si chiedono a Kabul è se “l’esercito afghano sia pronto o no a guidare il paese senza l’aiuto delle truppe straniere”. Domanda che rimane un interrogativo al quale pochi sanno rispondere. Al massimo si azzarda qualche ipotesi analizzando numeri. Fazioni in lotta tra loro e corruzione sono soltanto due dei fattori che destabilizzano il cammino dell’Afghanistan. Ma la data del 5 aprile 2014 sarà un giro di boa. Gli afghani saranno chiamati a eleggere il nuovo presidente (Karzai non è più eleggibile). Un fallimento di questo processo democratico e un chaos come avvenne nelle precedenti elezioni potrebbe segnare negativamente tutta la fase di transizione del paese. I primi di luglio 40 paesi hanno promesso al governo afghano lo stanziamento di 16 miliardi di dollari a condizione che le elezioni siano libere e trasparenti e che due nuove leggi elettorali venissero approvate. In venti giorni il parlamento ha votato e approvato le nuove leggi che disciplinano le elezioni presidenziali e provinciali del prossimo anno, definendone il quadro giuridico. Secondo alcuni analisti afghani, “le leggi approvate forniranno una base migliore rispetto alla struttura giuridica precedente”.

Sarebbe un passo avanti importante, considerando che le rivalità istituzionali, i conflitti interni per le autorità locali e le diatribe sul ruolo dell’Islam nella governance, legato al non rispetto di quest’ultima da molti governatorati che ancora applicano le leggi tribali (leggi informali), al posto al posto di quelle formali, ha causano al paese una forte crisi costituzionale nell’ultimo decennio. Se gli afghani potranno liberamente scegliere il loro presidente sarà un passo importante anche per tutti i fondamentali appuntamenti successivi.

Ma il tema sicurezza, nonostante le elezioni presidenziali alle porte e i falliti tentativi di riconciliazione nazionale con i talebani, è ancora probabilmente l’argomento più dibattuto e sentito dalla comunità internazionale. Cosa succederà al paese quando le truppe da combattimento della NATO si ritireranno completamente nelle loro basi, che verranno poi smantellate successivamente man mano che il numero dei militari stranieri nel paese diminuirà? Un miglioramento nei ranghi delle forze di sicurezza afghane (ANSF) c’è stato, soprattutto nella capitale. Lo dimostrano gli ultimi attentati, dove gli afghani sono riusciti a controllare la situazione e riportare l’ordine senza l’aiuto delle forze ISAF. Come da tempo oramai è stato raggiunto l’obiettivo di reclutare 350mila uomini nelle forze di sicurezza nazionale (ANSF).

Tra i fattori di forte instabilità, invece, c’è l’alto numero di “attacchi interni”, che ha danneggiato la fiducia tra i membri dell’ANSF. Dal giugno scorso, quando la NATO ha iniziato il passaggio graduale dei poteri all’Esercito afghano, questo conta tra le sue file 4-5 volte le vittime dell’ISAF. Il Ministero dell’Interno afghano ha fatto sapere che nel mese di giugno sono rimasti uccisi 300 membri appartenenti alle forze locali e nazionali di Polizia. Nel lasso di tempo che va da gennaio a fine maggio sono stati uccisi 807 membri delle forze di sicurezza afghane e 365 civili. I soldati della coalizione che hanno perso la vita nello stesso periodo sono stati 63. Se si confrontano i dati con quelli del 2012, quando le forze di sicurezza afghane avevano perso 360 soldati e la coalizione 177, si capisce che gran parte delle operazioni di combattimento contro l’insorgenza sono passate nelle mani degli afghani. Per quanto riguarda la logistica il lavoro da fare è ancora lungo. Molti ufficiali sono ancora facilmente corrompibili, tanto che sono frequenti le “perdite” di armi e munizioni dai depositi. Alte, poi, anche se in calo, sono ancora, a causa delle difficili condizioni di vita, le diserzioni e le assenze senza permesso. Soprattutto nelle regioni più remote e sperdute del Paese.

Ovvio che il futuro dell’Afghanistan è in mano alla sua classe dirigente. Come molti hanno già fatto notare, “non ci sarà nessuna buona prospettiva se i leader politici non riusciranno a mettere da parte le proprie rivalità ed i propri interessi personali a favore dell’intero paese”.

Andrea Bernardi


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