E il leader taliban scrisse a Malala “Non dovevamo colpirti, torna a casa”

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NON presentano le proprie scuse. Ma fanno sfoggio di misericordia, nonostante «l’oltraggiosa campagna» della loro vittima. I Taliban invitano Malala Yousafzai a tornare a casa, dove potrà studiare e usare la sua penna. Non certo per denunciare le loro nefandezze, ma per «rivelare la cospirazione occidentale» di cui era diventata un’agente in Pakistan.
L’ultima lettera recapitata a Malala — la ragazza divenuta simbolo della battaglia per l’istruzione delle bambine — non è uno di quei messaggi di solidarietà ricevuti a migliaia dopo l’attentato dell’anno scorso. Arriva dai ranghi degli studenti coranici, proprio quelli che avevano cercato di zittirla.
Era l’ottobre del 2012. E la piccola militante, che su un blog in urdu della Bbc raccontava i misfatti dei Taliban dello Swat, venne ferita gravemente. Grazie alla sua discreta celebrità locale, venne trasferita in Gran Bretagna per un intervento d’urgenza. Poi, il recupero quasi miracoloso, la nomina al Nobel per la Pace appoggiata dalla piattaforma digitale Change. org, un contratto per un’autobiografia (in uscita in Italia a ottobre), infine il discorso all’Assemblea generale dell’Onu giorni fa. «Avete fallito», aveva fatto sapere ai Taliban, parlando con il dito alzato e la voce ferma di fronte al mondo intero nel giorno del suo sedicesimo compleanno.
Ebbene, i Taliban non potevano incassare in silenzio un tale smacco d’immagine. A distanza di tre giorni, la replica: una lettera pubblicata da
Channel4 e firmata da un comandante del movimento Tehrik-i-Taliban, una delle più attive formazioni fondamentaliste del Pakistan. La firma, Adnan Rasheed: un radicale condannato nel 2003 per aver tentato di uccidere l’ex presidente Musharraf e liberato dai suoi compagni in un clamoroso assalto ad una prigione nel 2012. Dice di parlare a titolo personale, ma è improbabile che non abbia avuto il placet del movimento.
Del resto, nelle sue parole trapelano l’ideologia e le contraddizioni che attraversano questa formazione. Così, se Malala viene vista come l’ambasciatrice di un progetto occidentale, che punta a dominare il mondo e a imporvi «una religione globale», allo stesso tempo l’adolescente avrebbe suscitato la compassione del mittente. Anche perché, sottolinea, appartengono alla stessa tribù, gli Yousafzai.
Conosceva il suo diario digitale e avrebbe voluto consigliarle «fraternamente» di interrompere le sue «attività anti-Taliban». Tanto che quando è stata «attaccata », scrive, «è stato uno shock, ho sperato che non fosse accaduto». Affettuoso, il “talib”. Ma non dice se l’attentato era un gesto sbagliato: «Lo stabilirà Allah». Sconfessa le parole pronunciate all’Onu dalla ragazza: «I Taliban non si oppongono all’istruzione ». Spiega che se hanno tentato di strapparle la vita, è perché «calunniava il loro tentativo di imporre un sistema islamico nello Swat». E argomenta che se fanno saltare in aria le scuole è colpa della guerra all’anti-terrorismo dei militari di Islamabad: che nelle impervie regioni tribali delle Fata usano le aule come «ripari e campi temporanei».
La lettera suggerisce infine una strada per la “redenzione” di Malala. Anche se la lettera descrive la militanza della ragazza come un’arma occidentale contro la regione, il talib Rasheed ostenta benevolenza. Ma in versione islamista. E invita colei che ormai è diventata un simbolo globale a tornare in patria: «Per adottare la cultura islamica e pashtun, frequentare una madrassa femminile e usare la penna per rivelare la cospirazione della piccola élite che vuole schiavizzare l’umanità». Un invito che per ora Malala, con una minaccia taliban sulla testa, difficilmente accetterà. Certamente, non alle loro condizioni.


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