La benzina che mancava

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UN GOVERNO del Sud Europa vacilla per il rifiuto del paese di accettare altri sacrifici, la recessione prosegue, il debito pubblico non smette di salire, e gli investitori esteri iniziano a chiedersi se la sola via d’uscita non sia l’insolvenza, ora che la quota di titoli di Stato di Lisbona da loro detenuti è giù da circa il 75% al 33% del totale e sale invece la parte in mano ai portoghesi stessi.
Diversi invece sono gli accenti con cui ieri José Manuel Barroso, ex premier di Lisbona, ha parlato all’Europarlamento. Mentre il suo paese d’origine fa i conti con un deficit al 10%, il presidente della Commissione Ue ha confermato che i governi con un disavanzo sotto al 3% del Pil avranno margini per investimenti in più in modo da sostenere la loro economia. Non dovranno più puntare tutti verso l’azzeramento del disavanzo simultaneamente e al più presto.
È dal 1999, quando era commissario a Bruxelles, che Mario Monti chiede un’elasticità del genere nella gestione dei bilanci pubblici. Da Palazzo Chigi, lui stesso e il suo successore Enrico Letta hanno negoziato con pazienza queste concessioni che per l’Italia comportano una contabilità precisa: per quest’anno nessun margine, visto anche che la spesa pubblica sta già salendo attorno al 52% del Pil e il deficit è (almeno) al 3%; ma per l’anno prossimo, se davvero i conti terranno, il governo potrebbe facilitare investimenti per circa 15 miliardi. Qualora il deficit dovesse essere attorno al 2,5% del Pil, come previsto, circa otto miliardi potrebbero arrivare dal Tesoro e permetterebbero di sbloccare un co-finanziamento di fondi comunitari per una somma più o meno equivalente. Enzo Moavero Milanesi, ministro degli Affari europei, ha negoziato prima sotto Monti e poi sotto Letta i dettagli dell’accordo. Ma anche lui, come il premier, sa bene che l’annuncio di Barroso ieri è solo un tassello in un quadro a molte altre dimensioni.
La principale è politica: che l’Italia abbia potuto contribuire a un’intesa simile suggerisce che solo un approccio cooperativo può indurre Berlino a una linea meno unilaterale. Angela Merkel non intende lasciarsi accusare in Germania per aver aiutato, magari con i soldi dei tedeschi, un paese che mette a rischio la stabilità propria e dell’euro: niente di simile all’intesa di ieri sarebbe mai emerso se il disavanzo italiano fosse continuato a salire. Da Bruxelles, da Francoforte o da Berlino le richieste più stringenti su tasse e saldi di bilancio sono sempre proporzionali al rischio di default, ma anche alla sfiducia verso chi gestisce un governo della cosiddetta «periferia» dell’euro. Un paese che non si aiuta da solo — a crescere, a rompere i vincoli che lo bloccano,
non solo a risanare — difficilmente verrà aiutato dagli altri. Viceversa, il caso Cipro ha dimostrato che un governo che minaccia di farsi saltare finanziariamente per forzare gli altri a sostenerlo, verrà portato sull’orlo dell’abisso e oltre.
Resta poi però la dimensione finanziaria dell’accordo sui margini di bilancio, e neppure questa è scontata. Non lo è per molte ragioni: il debito pubblico continua a salire verso il 132% del Pil, non lontano da una soglia che l’Eurogruppo considera insostenibile, e la contrazione del prodotto anche quest’anno sarà attorno al 2%. Ma se davvero l’Italia avrà margini l’anno prossimo per innescare investimenti con fondi propri e europei, dovrà anche usarli efficacemente. Già oggi i fondi comunitari e nazionali da investire nell’occupazione non mancano: ogni provincia in Campania, in Calabria o in Sicilia gestisce decine di milioni per la «formazione» di giovani laureati lasciati ai margini del sistema. In molti casi però quei fondi conquistati con solenni dichiarazioni a Bruxelles diventano strumenti di gestione clientelare dei politici locali: si pagano profumatamente insegnanti scelti in modo bizzarro per impartire ai giovani disoccupati nozioni inutili, parcheggiandoli in classe per altri anni in cambio di pochi euro.
Ora il governo dovrà presentare a Bruxelles un piano per usare meglio la flessibilità che ha strappato. È un’occasione per mettere i giovani a contatto con le imprese, perché maturino le competenze più richieste e oggi spesso introvabili. In caso contrario, gettare nuova benzina finanziaria in un motore rotto rischia di servire a poco. Se nessuno lo ripara neanche Mario Draghi, da Francoforte, potrà mai farlo ripartire.


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