‘Termini d’uso’: così ci fregano

Loading

Twitter, Facebook, Google, LinkedIn, Apple, Amazon. Sono solo parte delle decine di servizi cui accediamo tutti i giorni on line. Alle condizioni decise dai relativi ‘termini di utilizzo’ (TOS). Che nessuno legge, «nemmeno gli avvocati che li scrivono», come dice il comico Eddie Izzard nelle battute iniziali di un documentario appena uscito negli Stati Uniti e visionato in anteprima da ‘l’Espresso’, intitolato ‘Terms and Conditions May Apply’.

Girato in due anni e oltre tremila ore di lavoro dal regista Cullen Hoback, spiega che se anche un utente medio dovesse davvero leggere tutti i TOS dei servizi a cui accede, impiegherebbe «un mese lavorativo all’anno» per farlo.

Impossibile.

Risultato? I consumatori perdono 250 miliardi di dollari ogni 12 mesi per ciò che sta «nascosto» tra le righe.

Qualunque cosa, dice il regista raggiunto via mail: nel 2009, GameStation vi inserì – per scherzo – «la nostra anima immortale»; oggi Apple scrive di non essere responsabile, ricorda Hoback, per l’utilizzo di un proprio prodotto per una «guerra nucleare».

Il problema è che si tratta di «una questione di prendere o lasciare. Per essere un membro della società moderna, in molti casi non accettare non è un’opzione».

Il documentario, spiega Hoback, nasce da un’esigenza ben precisa: «C’è una generale mancanza di consapevolezza», dice, «su come i Google e i Facebook del mondo abbiano tratto beneficio dai nostri dati, e su come quei benefici abbiano condotto al più grande incubo per le libertà civili del nostro tempo: la totale distruzione della privacy».

Ed è questo legame a costituire il cuore del filmato. Da un lato, una accurata ricostruzione storica di come sia nato l’apparato di sorveglianza digitale dell’intelligence Usa svelato in questi mesi da Edward Snowden, la fonte del Datagate. Dal programma ‘Total Information Awareness’ del 2002, l’antenato di Prism capace di «sorvegliare ogni informazione digitale esistente», alle rivelazioni quattro anni più tardi dell’ex tecnico AT&T Mark Klein, che svelano che il gigante delle telecomunicazioni era coinvolto in un programma di sorveglianza dell’Nsa per il traffico Internet, si comprende come secondo Hoback il Datagate «abbia detto poco che già non sapessimo». Al punto che se potesse rigirare il documentario oggi, vi aggiungerebbe poco o nulla.

Dall’altro il modo in cui l’ingigantirsi della macchina dello spionaggio, con scarso o nullo scrutinio pubblico, si sia legato agli interessi dei colossi web che hanno fatto dei nostri dati personali l’inesauribile miniera d’oro su cui basare le proprie fortune. «E se la raccolta di dati richiesta dal Patriot Act», si chiede la voce narrante, «fosse diventata il fondamento di un modello di business completamente nuovo? E il fondamento della rete moderna, come la conosciamo?».

Una rete basata essenzialmente sulla sorveglianza: che produce dati che sono al contempo la moneta sonante dei colossi privati e gli elementi fondamentali su cui basare la protezione dello Stato dal terrorismo – e da ogni altro tipo di minaccia.

«Prevenire», non a caso, è la parola chiave comune ai TOS, secondo il filmato. Gli accordi tra i giganti web e l’intelligence svelati nel Datagate, dunque, non debbono sorprendere: «Per la Cia, Facebook è una benedizione», recita un passaggio del documentario. Prima di chiedersi che ci facesse per esempio Robert Mueller, il direttore dell’Fbi, a zonzo per la sede di Menlo Park.

Peccato che la prevenzione non solo ha un costo elevatissimo, cioè la nostra riservatezza: è anche e soprattutto inefficace. Non funziona. L’occhio di Hoback si posa sulla storia di un ragazzo irlandese, Leigh Brian, che 20 giorni prima di un viaggio da turista negli States chiede a una ragazza in un tweet di vedersi, prima che vada a «distruggere l’America». Intendeva fare festa, ubriacarsi. Ma quando fa per tornare, all’aeroporto viene interrogato per cinque ore per quel ‘cinguettio’, tanto pericoloso da finire con «x», un bacio. Viene ammanettato, messo in cella. Gli agenti non trovano nessuna reale minaccia in lui, ma ora il ragazzo è in lista nera e rischia di finire interrogato a ogni aeroporto.

Ancora, vengono mostrati altri due casi di persone che si sono viste bussare alla porta dagli Swat o dall’Fbi – perfino un ragazzino di 12 anni a scuola – per un post su Facebook.

E fa bene Hoback ad alternare alla cronaca scene del film ‘Minority Report’, con arresti per «pre-crimini»: colpa della «macchina» che ha determinato la presunta colpevolezza, prima di compiere alcunché, sulla base di una serie di parole raccolte da programmi di sorveglianza online.

Oggi la privacy è «moribonda», dice Hoback. Ma non per questo dobbiamo accettare la sua dipartita. E del resto, nel suo passaggio più straordinario, il documentario mostra che perfino il principale teorico della fine della privacy, Mark Zuckerberg, le attribuisca valore, eccome. Nel finale, infatti, il regista lo scova fuori dalla sua abitazione. Con una telecamera tradizionale, che il creatore di Facebook vede immediatamente, e una nascosta all’interno di un paio di occhiali simili ai Google Glass.

Zuck gli chiede di non registrarlo, e Hoback acconsente. Ma in realtà ha spento solo la telecamera, e sta continuando a registrarlo con gli occhiali. Visto quello che fa con i nostri dati, «ci è sembrato giusto», dice il regista. Hoback nota – ed è visibile – come il comportamento di Zuck cambi sensibilmente quando pensa di non essere registrato. Si rilassa, sorride, mentre prima era teso. «Sorride perché abbiamo smesso di registrare. Ne era sollevato», dice la voce narrante. «Immaginate che sollievo sarebbe se tutte le aziende smettessero di registrare ogni cosa facciamo. Se solo potessimo fare una semplice richiesta, la stessa che mi ha fatto Zuckerberg: puoi smettere?».

Ma possiamo? Nonostante l’onda lunga del Datagate, per Hoback «solo il tempo potrà dirlo. C’è una possibilità, ma ci vorrà la volontà delle persone. E perché quella volontà si manifesti, devono capire esattamente cosa c’è in ballo». Il suo documentario lo spiega egregiamente, una visione obbligata per i troppi che finora hanno liquidato le tante, complesse minacce alla nostra privacy on line con una scrollata di spalle.


Related Articles

2001-2010 VITTIME DI STATO

Loading

L’ANNIVERSARIO DEL G8 CELEBRA I «CADUTI»
Pinelli e Mastrogiovanni, Fausto e Iaio, Aldrovandi, Bianzino e Cucchi. A Genova, dove nove anni fa fu ucciso Carlo Giuliani, si ritrovano i familiari delle vittime della democrazia. Morti in scontri di piazza o in carcere o durante un fermo. Anarchici e non solo. Un lungo elenco di assassinii e di impunità  per i responsabili

Storia di un Segreto Inconfessabile

Loading

Caso chiuso da un giudice civile mentre i pm ancora indagano.Si aspettano le risposte di Francia e Libia alle rogatorie

Sembra la storia di O.J. Simpson, l’ex campione di football americano che dopo aver ucciso moglie e amante nel 1994 la scampò clamorosamente in sede penale ma fu ri conosciuto colpevole in sede civile e condannato a risarcire le famiglie delle vittime. In realtà , una differenza con quella vicenda c’è. E cioè che un processo penale sulle cause della strage di Ustica non è mai stato celebrato per ché l’inchiesta è ancora aperta e due magistra ti della Procura di Roma (Amato e Montele one) sono in attesa che alcuni dei Paesi  direttamente o indirettamente coinvolti nell’abbattimento del DC9 Itavia (Francia e Libia su tutti) rispondano alle rogatorie italiane, possibilmente senza reiterare silenzi, omissioni e bugie dietro cui si sono nascosti negli ultimi trentatré anni.

No Tav. Oggi in Val Susa, come da 14 anni

Loading

Alla manifestazione ha annunciato la sua adesione Legambiente “per ribadire il proprio no alla linea ad alta velocità Torino Lione, una grande opera inutile, costosa e che rischia di produrre danni irreversibili”

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment