Il denudamento sotto sembianze infantili

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Quello del rapporto tra sé e l’altro è il terreno spinoso dove si gioca all’«assimilazione» Dietro il paravento dell’integrazione si nasconde sempre il primato della Whiteness «Il popolo Mendi pensa, pensa, pensa», scriveva in una lettera l’undicenne Kale dal carcere di New Haven nel gennaio 1841. Dopo sedici mesi di prigionia, il rapimento in Sierra Leone, la traversata atlantica a bordo di una nave negriera, la sosta all’Avana per il mercato degli schiavi. E poi la ribellione agli schiavisti spagnoli a bordo della goletta Amistad diretta a Puerto Príncipe ad Haiti, la riconquista della libertà, l’approdo a Long Island e l’arresto per pirateria e omicidio. Nel carcere di New Haven il gruppo dei «ribelli dell’Amistad» – come sarebbero stati ricordati (si veda la magistrale ricostruzione storica di Marcus Rediker: La ribellione dell’Amistad , già recensita su queste pagine da Raffaele Laudani) – aveva incontrato gli abolizionisti e con il loro aiuto avevano imparato l’inglese e studiato la Bibbia.

Quella lettera, indirizzata all’ex presidente americano John Quincy Adam, convinto abolizionista e avvocato difensore di fronte alla Corte suprema, era espressione al contempo di assimilazione e resistenza alla cultura americana; era l’efficace traduzione del sapere africano nella cultura americana. Un modo per ribadire la propria identità, le proprie idee sul come portare avanti il processo: su quali temi insistere e quali note emotive toccare. E soprattutto era un segnale forte di autonomia di fronte alle insistenze degli abolizionisti decisi a fare degli africani degli uomini nuovi, «civili» e timorati di Dio. Ma il progetto non corrispondeva alla volontà degli africani incarcerati. I ribelli dell’Amistad avevano appreso la cultura americana con l’unico forte obiettivo di tornare in Africa da uomini liberi.

Quello dell’incontro tra le culture, del rapporto tra sé e l’«altro», della salvaguardia o annullamento della propria identità, è un terreno spinoso e sempre attuale, che rimanda a un sistema verticale di relazioni sullo sfondo del primato della Whiteness e delle sue gerarchie capitalistiche. L’obiettivo è sempre l’integrazione o meglio l’assimilazione subordinata dell’« altro». E questo è vero anche oggi, in tempo di globalizzazione e migrazioni di massa, quando l’incontro tra le culture ha preso il più rassicurate nome di intercultura. Ne resta immutato l’assunto assimilazionista, mentre sullo sfondo si stagliano ossessione securitaria e retorica della rassicurazione, in una «sorta di generico progressismo» che celebra le virtù della società civile. È questa l’argomentazione critica al centro del volume di Walter Baroni Contro l’intercultura. Retoriche e pornografia dell’incontro (ombre corte 2013, pp. 171, 17,00 euro).

Una robusta critica all’ipocrisia dell’intercultura che mette in primo piano il potenziale di discriminazione che i saperi della differenza portano con sé. Intercultura, parola chiave al tempo della Postcolonia , è soprattutto la costruzione di «una condizione infantile cosmica», parte di un progetto pedagogico che assume l’altro – oggi in Italia, e nel volume, il lavoratore e la lavoratrice migrante – come essere da educare ai canoni del vivere nel paese di residenza. In questo senso la narrazione interculturale è «macchina di inferiorizzazione» che macina la storia, la cultura e le esperienze dell’«altro» così da giustificarne l’integrazione e conferirle legittimità. In tre corposi capitoli, il volume analizza due campagne di comunicazione visiva (il «Progetto Integrazione» del governo Berlusconi IV tra il 2008 e il 2010 e «Luoghi comuni/piccole storie migranti» della Ong milanese Lettera27 del 2009), alcuni saggi nel campo delle scienze umane (soprattutto di pedagogia e psicologia) e i «racconti dell’incontro con l’altro interculturale», tra produzione di biografie (con riferimento anche ai lavori di Federica Sossi e Davide Zoletto) e letteratura delle migrazioni (in particolare Pap Khouma, Tahar Lamri, Kossi Komla-Ebri, Abdelmalek Smari).

In modo convincente, e trasversalmente ai tre filoni d’analisi, il volume insiste sul carattere pornografico dell’esperienza interculturale, ovvero «il denudamento senza termine» dell’«altro» e la costante «esibizione» della differenza funzionale alla comprensione di sé. Ma soprattutto il volume svela il carattere predatorio dell’intercultura: «l’altro è messo al lavoro per produrre i segni della propria differenza». È il feticismo della merce cultura che qui viene rivelato: la costruzione della differenza culturale che si fa valore di scambio sul mercato interculturale dell’assimilazione. E, come il volume individua, alimenta al contempo specialismi professionali e nicchie di sapere da valorizzare sul mercato della conoscenza.

Ciò che sembra restare in ombra è invece la dimensione soggettiva dell’«altro». Se infatti la critica puntuale ai dispositivi di assoggettamento e sfruttamento della retorica dell’intercultura denuncia la costante descrizione di un «altro» tendenzialmente passivo, non è chiaro che spazio l’autore riservi all’ agency, ovvero se sia o meno presa in considerazione la possibilità di uno spazio di autonomia soggettiva attraverso cui l’«altro» interculturale resiste all’infantilizzazione, inferiorizzazione e all’esibizione costante di una differenza costruita al fine dell’integrazione subordinata. Che poi è quello che hanno fatto i ribelli dell’Amistad nel carcere di New Haven, dando ampia prova dei percorsi possibili di resistenza all’assimilazione al primato della Whitheness.


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