LA SINDROME AL QAEDA

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 Sopravvissuta a Nasser e a Mubarak, la Fratellanza sopravviverebbe anche a al-Sisi. Certo, il partito Libertà e Giustizia verrebbe sciolto ma la confraternita, con il suo radicamento sociale e capacità di influenzare il discorso religioso, continuerebbe ad agire. Non è un caso che al-Sisi abbia richiamato la necessità di evitare un conflitto religioso.
Sul fronte islamista, comunque, il 3 luglio e le giornate di agosto, hanno già prodotto notevoli contraccolpi. Il rovesciamento di Morsi segna uno spartiacque per un’organizzazione di massa che, solo dopo una lunga e faticosa marcia ideologica, aveva accantonato, pur divenendo nella prassi fautrice di una concezione illiberale della democrazia, l’equazione sovranità popolare eguale idolatria. Ora lo scacco subito non può che rilanciare le tesi sconfitte nella Fratellanza nel 1969, quando l’allora guida Hudaybi sconfessò l’eredità di Sayyd Qutb, ideologo del gruppo e sostenitore della tesi secondo cui la società egiziana era jahilita, preislamica. Giudizio che legittimava il jihad contro il “potere empio” e quanti, tra i musulmani, lo sostenevano. Non a caso, da quella frattura ideologica nasce lo jihadismo egiziano, prodotto delle scissioni di piccoli gruppi fautori della lotta armata come atto fondativo dello Stato islamico.
Ora, la brutale fine dell’esperienza di Morsi, e la repressione che ne è seguita, rischia di segnare la fresca cultura politica della Fratellanza, inducendo alcuni suoi settori minoritari a ascoltare le sirene delle correnti islamiste più radicali. Correnti convinte che non sia possibile alcuna via diversa da quella dell’islamizzazione dall’alto, pervase da una sorta di leninismo religioso attratto dalla spirale azione-repressione- insurrezione come levatrice di un “autentico” stato islamico. Teorie e prassi nettamente sconfitte alla fine dello scorso secolo. Ma la clandestinità produce clandestinizzazione della politica e, dunque, terreno favorevole alla ripresa del jihad.
La polverizzazione di quello che il movimento Tamarod chiama polemicamente “fascismo islamico”, espressione molto in voga qualche anno fa tra i neocon americani, può generare, dunque, un movimento centrifugo, destinato a far fuoriuscire settori militanti disposti a imboccare la via della lotta armata contro il “potere empio” e la “società idolatra”. Esito che renderebbe instabile tutta l’area Mediorientale e nordafricana.
La decapitazione della Fratellanza egiziana ha già riflessi all’esterno. In Siria, innanzitutto, dove tra gli islamisti potrebbero ora prevalere le correnti più intransigenti dell’organizzazione, scettiche su un possibile processo democratico, e dove rischia di aumentare la forza gravitazionale del nucleo qaedista dello “Stato islamico in Iraq e Levante”. Per i qaedisti le vicende egiziane non fanno che confermare le loro tesi sull’impossibilità di accettare la democrazia e qualsiasi rapporto con il mondo crociato, nella sua duplice accezione di Stati Uniti e mondo cristiano. E poi in Tunisia, dove Ennahda, che ha subìto già il pesante condizionamento salafita, potrebbe non reggere l’accesa polemica di quello schieramento sulla sua svolta centrista. A Gaza, infine, dove Hamas potrebbe cercare di uscire dal nuovo isolamento ostile con la ripresa degli attacchi contro Israele.
La crisi della Fratellanza rilancia l’influenza dell’Arabia Saudita, in quanto potenza protettrice del confessionalismo sunnita e attore del controllo del campo religioso mediante la diffusione del wahhabismo come dottrina rivale e ostile a quella della Fratellanza. In riva al Nilo non si decide, dunque, solo chi comanda in Egitto ma la stessa forma politica del campo islamista.


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