La sindrome di Atene

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Ma la svolta è storica: nel secondo trimestre del 2013 l’Italia ha smesso di accumulare debiti sul resto del mondo. Non accadeva da undici anni, e fa molta differenza. La radice dell’esplosione dello spread era anche in quel dato, non (solo) nell’accorciarsi della speranza di vita di questo o quel governo.

LA BANCA d’Italia si è limitata a riportare l’andamento della bilancia delle partite correnti; quel valore si riferisce al saldo del dare e dell’avere con l’estero negli scambi di beni, servizi e del versamento di interessi e dividendi a chi ha comprato bond o azioni. Quando quel saldo è in rosso significa che l’Italia -Stato e privati insieme – ha bisogno di trovare sempre nuovi prestiti fuori dai confini per mantenere il proprio tenore di vita. Ora il rosso è scomparso: per la prima volta dal 2002, il saldo registra un attivo di 5 miliardi, dopo aver conosciuto un rosso di oltre 60 miliardi appena due anni fa. Il deficit pubblico resta alto e contribuisce alla crescita continua del debito oltre il 130% del Pil. Ma ora gli italiani, se vogliono, sono in grado di finanziarlo da soli.
Questo non significa che la crisi sia finita: gli stessi dati di Bankitalia mostrano che il riequilibrio nei saldi con l’estero si è fatto in buona parte abbattendo il tenore di vita, cioè con il crollo delle importazioni per consumi e investimenti. La crisi sarà finita quando l’Italia vanterà un attivo nei conti con l’estero, ma non a prezzo di tre milioni di disoccupati e di salari cronicamente deboli per riuscire a vendere prodotti sui mercati globali.
Eppure, implicitamente, Bankitalia segnala che ormai il Paese è entrato in una fase diversa. Dai mercati non lo si direbbe, in verità. In una reazione d’istinto ai timori di crisi di governo, sia Piazza Affari che i titoli di Stato ieri hanno ceduto. Due fattori peraltro potrebbero provocare nuove tempeste nei prossimi mesi: un ulteriore declassamento sul rating, o il timore degli investitori che un Paese senza governo in carica non riesca a chiedere ed attivare lo scudo degli interventi della Banca centrale europea, qualora dovesse diventare necessario.
Ma appunto, per un Paese che non deve più finanziarsi all’estero i riflessi di mercato non sono più l’unica realtà che conta. Non in questa fase in cui
anche l’Italia, benché meno di altri, avverte gli stimoli di una ripresa trainata dalla Germania: «Sulla zona euro gli investitori in questo momento hanno deciso di guardare al bicchiere mezzo pieno – osserva il capo-economista dell’Ocse Pier Carlo Padoan – Se c’è qualcosa che si chiama speculazione, allora adesso ha deciso di concentrarsi sui mercati emergenti e non guarda all’Italia».
È in questo nuovo quadro internazionale che la strana maggioranza consuma le sue tensioni. Lo fa potendo guardare ad almeno due precedenti di crisi politiche in Paesi dell’area euro. Il 6 maggio 2012 le elezioni in Grecia produssero un Parlamento paralizzato, come in Italia a febbraio quest’anno, e la Borsa di Atene perse il 19 per cento in tre settimane. Poi però risalì del 16 per cento nelle due settimane successive prima ancora delle nuove elezioni del 17 giugno: i mercati avevano capito che l’impasse politica si sarebbe sbloccata e dettero tempo ai partiti di riorganizzarsi. Dalle
seconde elezioni uscì poi il governo conservatore di Antonis Samaras, la Borsa continuò a salire e lo spread scese.
Anche in Portogallo la reazione dei mercati è stata simile, il mese scorso, quando si sono dimessi il ministro delle Finanze Vitor Gaspar e poi quello degli Esteri Paulo Portas. Lo spread sui titoli di Lisbona schizzò di 80 punti in due giorni, ma tornò giù altrettanto in fretta quando si capì che il Paese non avrebbe deragliato dalla sua linea di riforme.
Certo l’Italia non è la Grecia, né il Portogallo: non dipende dall’aiuto degli altri Paesi ed è un’economia più complessa. Ma se i casi di Atene e Lisbona offrono una lezione, è che gli investitori vogliono poter intravedere il futuro. Nel caso dell’Italia, secondo alcuni gestori di hedge fund
globali, vogliono una legge elettorale che lasci sperare in governi capaci di funzionare e di rendere il Paese più competitivo. «È il principale fattore a cui guardano i mercati – osserva l’analista di Barclays Fabio Fois -Chi deve decidere se investire oggi vuole sapere se ci sarà un Parlamento in grado di approvare le riforme strutturali per una crescita spinta anche dalla domanda interna».
L’alternativa non è semplice, ora che lo spread ha perso molto del suo valore di termometro del malessere del Paese. Con i conti con l’estero in equilibrio, ma senza riforme per la crescita, l’economia ristagnerà, il debito continuerà a salire e gli italiani continueranno a comprarlo. Con o senza tempeste della speculazione internazionale lì ad avvertirli del rischio che stanno correndo.


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