L’immanente resistenza al debito

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C’è un’idea del pensiero filosofico italiano che si è consolidata con la recessione. Visto che la vita sarà dominata dalla teologia economica, e dal suo imperativo al pagamento del debito sovrano con l’ipoteca sul futuro, l’alternativa dovrebbe essere cercata ai bordi, sui margini, o nei risvolti impensati della storia della teologia politica cristiana. Giorgio Agamben, ad esempio, ritiene che tale alternativa vada cercata nell’«altissima povertà» predicata da San Francesco d’Assisi, o nel gesto «rivoluzionario» compiuto da Joseph Ratzinger quando si è dimesso da papa Benedetto XVI.
Questa ricerca ha dimostrato come all’origine dell’attuale dominio dell’austerità esista una teologia economica che deriva da un potere politico assoluto fondato sul dogma trinitario. Per lui, come per Michael Hardt e Antonio Negri nella conclusione di Impero nel 2001, Francesco resta un modello per la resistenza al potere millenario dell’economia, sebbene il santo patrono d’Italia abbia ribadito più volte il suo voto di obbedienza alla Chiesa. Larivalutazione da parte di questi pensatori radicali si spiega con l’idea che Francesco rappresenti ancora l’esempio di un’etica anticapitalistica e antiautoritaria basata sull’amore.
In queste filosofie politiche il problema non è se credere o meno in Dio, ma se dentro la teologia esista un modo per fare parlare la rivoluzione. Ne è passato di tempo da quando Benjamin usava il fantoccio del materialismo per far parlare il nano della teologia. Oggi la teologia si è presa tutto lo spazio, è diventato il linguaggio della politica, e dell’economia, mentre chi desidera la rivoluzione può farlo, ma a condizione di restare nel suo ambito e usare le sue categorie. In questo rovesciamento delle parti, rivelatore dell’egemonia religiosa (ed economica), la teologia politica sembra l’unica a potere esprimere un desiderio di radicale discontinuità. Nelle sue pieghe emergerebbero persino il soggetto, e la forma di vita, capaci di praticarla.
Tra la spoliazione della vita attraverso la povertà assoluta e l’amore per gli uomini che si esprime in quello di Dio o dei suoi santi verso i poveri, ci sarebbe un’alternativa. La indica Roberto Esposito in Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero (Einaudi, pp. 233, euro 21). Il filosofo napoletano parte da un presupposto: l’alternativa all’austerità, e alla sua teologia economica, va cercata fuori dalla teologia politica. Sin dalla sua lontana origine con la monarchia divina di Costantino, poi con Hegel e Carl Schmitt, questa teologia è stata il prodotto di una cattura degli esseri umani in un dispositivo che produce uno sdoppiamento, o raddoppiamento, della loro vita: da un lato c’è la dimensione trascendentale; dall’altro quella immanente. Accettare questa divisione significa negare alla vita la sua potenza e il suo desiderio. La teologia politica ha cercato di riunificarla violentemente con il comando di un’autorità. Oggi spera di farlo il capitalismo finanziario, con gli esiti tragici o grotteschi che tutti conosciamo.
Esposito indica un’alternativa nella tradizione che dal filosofo arabo Averroé a Gilles Deleuze, passando da Giordano Bruno, Spinoza, Schelling, Nietzsche e Bergson, arriva alla definizione di un pensiero di un’immanenza non teologica, bensì materialistica, il cui obiettivo è potenziare la vita e dimostrare che il pensiero non è di Dio ma è quello di una potenza anonima, e collettiva, espressione di un’intelligenza umana costituita dall’interazione delle singole menti nell’unità del cervello sociale.
In questo repertorio manca singolarmente Marx, che parlava non a caso di General Intellect, perno di un pensiero dell’immanenza che il filosofo napoletano sta sviluppando – insieme ad altri – in questi anni. Forse perché stiamo ancora parlando di un’immanenza speculativa dove però va riconosciuto a Esposito di avere abbandonato la decostruzione del «politico» che terminava in un’antinomia senza uscita.
Qual è dunque il posto di questo pensiero dell’immanenza in una società di indebitati e delle passioni tristi? Quello di rovesciare la catena oppressiva del debito in un circuito di solidarietà, risponde Esposito. La scelta è quella del conflitto contro il capitalismo. Ma prima ancora di aspirare ad abbattere l’idolo teologico del debito, venerato dai fratelli gemelli dello Stato e del Capitale, il filosofo ammette una verità deleuziana. Un conflitto può essere virtuoso, quindi vincente, quando si prova innanzitutto a credere in questo mondo, e in questa vita. Impresa non semplice, visto che tutte le teologie insegnano a diffidare della vita e a disperarsi per la propria impotenza. Una volta però riconquistata l’amore per il mondo, come creazione di infinite possibilità, allora potrebbe aprirsi uno spiraglio verso un modo di esistenza coincidente con la libertà di esistere.


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