Teatro Valle. Non più occupato, diventa fondazione

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ROMA. In soli due anni e mezzo la sua storia è già stata percorsa da esaltazioni, critiche, entusiasmi, antipatie, illazioni e fantasie; da chi avrebbe fatto meglio, diverso, più intelligente e da chi lo considera un “luogo magico”, chi “uno spazio sprecato con tutte le compagnie che ci sono a spasso”, chi un “atto illegale”, chi “un’avventura pionieristica”… Nel panorama teatrale italiano pochi eventi hanno suscitato schieramenti stizzosi o entusiasti, tassi di incomprensione e sperticata adesione come il Teatro Valle Occupato di Roma, insolita esperienza di ribellione da quando, nel giugno 2011, per fermare un progetto, di fatto già pronto, di privatizzazione, la più antica sala teatrale chiusa della capitale, palcoscenico storico della prosa italiana (qui nel 1921 Pirandello esordì tra i fischi con I sei personaggi) venne occupato da artisti e tecnici — in buona parte precari — e restituita alla città diventando da subito un simbolo del difficile rinnovamento culturale nel paese, con riconoscimenti in Italia e all’estero.
Ora, piaccia o no, tra alti (tanti: qui hanno voluto esserci Peter Brook, Judith Malina, Luca Ronconi, Peter Stein…) e bassi, inevitabili turbolenze e ricambi interni, sempre sospinto tra quelli che lo vedono come “uno scandalo, una illegalità” e quelli che lo considerano un modello “di sperimentazione di nuove possibilità di produzione e partecipazione culturale” come recita il premio della Principessa Margriet (ultimo prestigioso riconoscimento internazionale in ordine di tempo appena arrivato dall’Olanda, che verrà consegnato il prossimo marzo), il Valle Occupato annuncia un doppio importante traguardo: mercoledì verranno ufficialmente presentate la nascita della “Fondazione Teatro Valle Bene Comune”, alla presenza di Stefano Rodotà, che vi ha contribuito, e la prima produzione artistica, Il macello di Giobbea cura di Fausto Paravidino, attesa per marzo 2014, autentica scommessa, prima produzione “partecipata”, frutto di saperi comuni tra cento e più artisti e tecnici.
Entrambe le notizie aprono un nuovo orizzonte nella storia del Valle e non solo. «La Fondazione rappresenta l’uscita dall’illegalità: smettiamo di essere occupanti — ammettono Laura, Daniele, Camilla, Valeria alcuni degli artisti impegnati a tempo pieno — Quando siamo entrati al Valle due anni e mezzo fa nessuno di noi sapeva cosa sarebbe accaduto. La protesta, però, è diventata prospettiva. Non solo grido, ma occasione per riflettere sul teatro e sulla possibilità di una “terza via” di gestione delle imprese culturali, oltre a quella di fare teatro per i soldi col ristorante e il merchandising o di farlo con la politica che poi decide chi deve essere il direttore. Noi stiamo
provando una gestione pensata a partire dai beni comuni e dal principio di svincolare il peso di ogni socio dal suo rapporto economico. I seimila soci del comitato avranno pari peso. Il Comune di Roma? E’ vero, finora si è fatto carico delle bollette, ma a fronte di 90mila euro circa spesi per le utenze ha risparmiato il milione e 300 mila euro dei costi precedenti. Ci auguriamo che Ministero, Comune e tutte le istituzioni pubbliche vogliano riconoscere questa esperienza. Siamo aperti ad ogni forma di confronto. Un segnale? Qualche sera fa per lo spettacolo di Concita De Gregorio
Manchi solo tu il ministro della Cultura Massimo Bray era tra gli spettatori del Valle. La Fondazione, intanto, conta su un capitale sociale patrimoniale di 140mila euro più altri 100 in opere d’arte offerte dai sostenitori». Per la gestione, è in preparazione un bilancio preventivo con «paghe regolari e uguali per quelli che lavorano e, speriamo un domani, anche per chi frequenterà i corsi di formazione» confidando anche nella collaborazione con istituzioni e fondi europei.
Quindicimila per ora gli euro stanziati per Il macello di Giobbe, altri ne verranno dal crowdfunding in modo da arrivare a 100mila euro per quella che si annuncia come una inversione di logica rispetto al consueto modo di scrivere e produrre teatro: il testo è di Fausto Paravidino, 37enne attore e drammaturgo (Exitè il suo ultimo applaudito lavoro), ma è il risultato di uno studio collettivo con altri autori. E anche il lavoro dei tecnici, degli scenografi è il frutto di laboratori e pratiche di confronto. In questi giorni una ventina di musicisti, sotto la guida di Enrico Melozzi, sta realizzando le musiche. «Per parlare di oggi siamo tornati all’antico — spiega Paravidino — a Shakespeare, ai grandi classici, alla Bibbia. Il nostro Giobbe è un padre perfetto, uno come Lear, come Napolitano, insostituibile e come tale suscita frustrazione in chi dovrebbe diventarne il successore ». Questo Giobbe “teatrale” è un onesto macellaio («quando si parla di finanza, viene naturale l’ambientazione in una macelleria ») stritolato dalla crisi economica. Prova a salvarlo il figlio, un liberista che vede la finanza come filantropia, e si arricchisce sul default del padre con «un’operazione simile a quella che ha distrutto la Grecia e sta distruggendo l’Italia», chiosa Paravidino. L’intreccio famigliare diventa un piccolo palcoscenico del mondo, fiabesco e realistico insieme: si parla di capitalismo rapace e amore, solitudine e vendetta. «Ci si chiede dov’è il bene — sottolinea l’autore — La risposta? Nella Bibbia, se non sei animato dalla fede, trovi una non risposta; se sei un credente, una risposta misteriosa. Lo spettacolo si limita ad articolare la domanda. Ma già vedere le proprie sfighe in palcoscenico, ti infonde speranza».


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