Alitalia e Telecom, la doppia sfida

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Dopo aver bruciato ricchezza per 15 miliardi di euro nelle gestioni dirette, Berlusconi ha impedito la vendita senza oneri per lo Stato dell’ex compagnia di bandiera ad Air France e ha favorito l’avvento di una cordata patriottica, messa assieme da Intesa Sanpaolo e poi finanziata anche da Unicredit: una cordata ormai al capolinea, con quattro soci nei guai giudiziari. Telecom Italia rappresenta invece il fallimento del capitalismo nostrano alla prova della grande privatizzazione: gli Agnelli, i capitani coraggiosi, Tronchetti e ora Mediobanca, Generali e Intesa, nessuno ce l’ha fatta e gestire le telecomunicazioni.
Air France, scrive Bragantini, rappresenta la soluzione finale per Alitalia. Aggiungerei un forse. Il primo ottobre, e cioè dopodomani, l’ex compagnia di bandiera potrebbe portare i libri in tribunale. Le mancano 150 milioni di mezzi freschi e 300 di nuovi crediti. Gli azionisti «patriottici» sono pronti a sottoscrivere non più di un terzo dell’aumento di capitale indispensabile, per comprare tre o quattro mesi di tempo nei quali trattare il destino della compagnia con Air France o con altri vettori, magari più adatti. Le banche, in mancanza di un nuovo socio di riferimento, nicchiano. Il governo Letta, per quanto ormai in crisi, può forse indurre le banche a sottoscrivere in extremis nuove azioni Alitalia e a dare più credito. Ma sarebbe meglio se facesse vedere pure un soggetto che porti 100 milioni di capitale. Un soggetto fatalmente pubblico, dato il rischio. A meno che la cifra la metta Berlusconi, il padrino dei «patrioti». Nel prossimo incontro a palazzo Chigi, se la crisi non lo cancellerà, è convocata la Cassa depositi e prestiti. Sarebbe stato utile ascoltare anche le Fs. È possibile che Mauro Moretti, da oltre un anno chino anche su questo dossier, abbia un piano sbagliato in testa, ma perché affossarlo senza averlo letto e analizzato?
Intanto Air France, chiamata dagli stessi patrioti e da Berlusconi a prendersi il 25 per cento di Alitalia, non ricapitalizza per la sua parte la compagnia italiana. La vuole prendere dal curatore fallimentare ottenendo per quella via l’abbattimento del debito bancario e poi la ridurrebbe a sua misera ancella, con migliaia di licenziamenti. Non sarebbe un esito di cui rallegrarsi, per quanto il centro-sinistra possa censurare la cecità di Berlusconi.
Telecom Italia. Bragantini consiglia l’aumento di capitale che, se fosse dedicato a sviluppare l’America Latina, comporterebbe l’esclusione dal voto di Telefonica, in conflitto d’interessi essendo laggiù concorrente di Telecom. Nell’audizione in Senato, avevo chiesto al presidente Franco Bernabé se avrebbe portato la proposta in consiglio e poi in assemblea, anche a costo di farsi affondare da Telco. Bernabé ribadì la necessità di più capitale in Telecom, pena il declassamento del debito. Ma non prese impegni. Adesso fa filtrare la decisione di dimettersi, in radicale dissenso verso la scalatina di Telefonica. Negli ultimi due anni, Telco ha impedito a Telecom di approfondire le proposte di Sawiris e di Li Kashing. Forse erano orrende o forse no. Nessuno, al di fuori della società, le ha lette. Non è stato completato nemmeno il negoziato con China Mobile. Certo, in tutti e tre i casi gli investitori avrebbero investito in Telecom, portando soldi al business industriale, e non in Telco, che ha tanti errori da rimediare. Non volendo o non potendo mettere soldi in Telecom, ma non accettando nemmeno di diluirsi se li mettono altri, Telco gioca contro l’azienda. Ma in ogni caso resta la questione della salvaguardia dei risparmiatori maltrattati da Telefonica, Mediobanca, Intesa e Generali. Gli spagnoli, infatti, spenderanno 850 milioni per conquistare Telco, e per suo mezzo una società, Telecom Italia, che in Borsa vale ancora 11 miliardi. Questo vuol dire acquisire il controllo di fatto con l’attuale legge sull’Opa. Aggiornare questa legge aggiungendo alla soglia classica del 30 per cento, superata la quale scatta l’obbligo di Opa, una seconda soglia legata al controllo di fatto non cambia le carte in tavola, come invece scrive Bragantini. Il presidente della Consob, Giuseppe Vegas, ha chiarito in Senato come a un’eventuale riforma dell’Opa non possa essere imputato un effetto retroattivo sull’affare Telco-Telecom, dato che la maggioranza dei diritti di voto in Telco passerà a Telefonica solo a partire dal primo gennaio 2014. Al ministero dell’Economia si pensa ora di attribuire alle società quotate la facoltà di stabilire nel proprio statuto una soglia d’Opa inferiore al 30 per cento. Niente di definitivo, comunque, ha precisato il ministero in Senato. D’altra parte, se una società non utilizza quella facoltà, lasciamo il parco buoi al suo destino? E poi, se in Telecom qualcuno rastrellasse il 29,9 per cento, che farebbe Telefonica? E che ne sarebbe dei risparmiatori? Il Testo unico della finanza non è un vangelo immutabile. E lo stesso Mario Draghi, che ne fu il padre, non ne condivise per intero l’articolato. In questo caso, la difesa dei piccoli azionisti genera la difesa dell’azienda da chi la vuole smembrare a prezzo vile.
* Senatore Pd, Presidente commissione Industria


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