La doppia partita di Barack

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SAN PIETROBURGO. BARACK Obama incassa sulla Siria l’appoggio “minimalista” da alleati tradizionali come l’Italia e il Giappone.

USANO parole quasi eguali, Enrico Letta e Shinzo Abe al G20: le stragi con armi chimiche «non possono rimanere senza risposta» e, se l’America interverrà militarmente, «avrà la comprensione» delle nazioni amiche. È quanto basta per la diplomazia americana costretta a mettere l’asticella molto in basso. Deve accontentarsi di questo per segnalare l’uscita dall’isolamento, e giocarsela sul piano interno dove il sì del Congresso rimane molto incerto: nell’entourage di Obama ormai si discute apertamente lo scenario di uno “split Congress”: un voto diviso, sì al Senato e no alla Camera sull’intervento contro Assad.
È un G20 tutto in salita per Obama, il sole radioso di San Pietroburgo non basta a dissipare un’atmosfera gelida. Obama e Putin si attaccano per interposta persona. Il presidente russo insulta il segretario di Stato John Kerry («bugiardo, mente sapendo di mentire») reo di non riconoscere il peso crescente di Al Qaeda tra i ribelli siriani. Dal Palazzo di Vetro di New York ribatte Samantha Power, ambasciatrice Usa all’Onu: «Putin tiene in ostaggio il Consiglio di sicurezza » (col veto all’intervento militare). Meno di tre mesi fa, al loro ultimo incontro nel G8 di Lough Erne, Putin era isolato e Obama lo aveva descritto come «il discolo annoiato che sbadiglia in fondo alla classe» boicottando la lezione. A San Pietroburgo il discolo è diventato il capoclasse. Padrone di casa, Putin ha il controllo dell’agenda dei lavori, proibisce la discussione sulla Siria nella prima seduta, la rinvia alla cena, riceve (in quanto presidente di turno) il messaggio del papa. Si permette una beffa: proprio mentre è in corso il G20, a Washington il presidente della Camera John Boehner (repubblicano) rivela di essere stato avvicinato da lobbisti del governo russo che volevano influenzare il voto sulla Siria. Il G20, consesso allargato ai big emergenti, consente a Putin di esibire un asse Russia-Cina in sintonia sulla Siria: i cinesi denunciano «l’impatto negativo che un’azione militare avrebbe sull’economia globale, attraverso il rincaro del petrolio». Obama incassa il malumore della presidente brasiliana Dilma Rousseff, indignata per essere stata spiata dalla National Security Agency (rivelazioni di Edward Snowden… l’ospite di Putin). La Rousseff con le sue rimostranze lo trattiene e lo fa arrivare con mezz’ora di ritardo alla cena.
La giornata russa di Obama è inframmezzata da pause “domestiche” defatiganti. Per cinque volte, rivela il suo consigliere strategico Ben Rhodes, il presidente telefona a Washington per intrattenersi con senatori dei due partiti.
A 8mila chilometri di distanza e otto ore di fuso, si svolge una partita che lo tiene sulle spine. I conteggi delle intenzioni di voto costringono a immaginare scenari complicati. Ammesso che passi la risoluzione al Senato dove i democratici sono maggioranza, un “no” della Camera (controllata dalla destra) potrebbe essere imputato da Obama a faziosità di parte. Il potere presidenziale non rende vincolante il voto del Congresso, l’azione militare potrebbe scattare lo stesso. La Casa Bianca però ha bisogno del G20 per portare a casa un vago consenso internazionale. Glielo chiedono in molti nel suo campo, come la senatrice democratica Barbara Mikulski (commissione sui servizi segreti): «Se la Siria è un’emergenza mondiale, dove sono i nostri alleati? Cosa faranno in caso di intervento? Si comporteranno come gli scolaretti vigliacchi che di fronte al bullo nel cortile dicono alla vittima: dagli un pugno che noi ti reggiamo la giacca?» Non aiuta Obama lo scoop del New York Times, nel giorno stesso del G20, sulle violenze commesse dai ribelli siriani.
Agli alleati Obama spiega la vera posta in gioco. Un Assad impunito e quindi rafforzato, sconvolgerebbe gli equilibri in Medio Oriente in favore di Iran, Hezbollah. Col rischio che i paesi più minacciati, Turchia e Israele, finiscano per fare la guerra da soli, e con minori cautele dell’America. Ma il presidente americano si trova di fronte un’Europa in ordine sparso. La débâcle di David Cameron in Parlamento, la solitudine filoamericana di Hollande, gli configurano davanti agli occhi un disastro della politica estera europea quasi paragonabile all’abortito intervento franco-inglese a Suez nel
1956. Il presidente Ue Herman Van Rompuy ne è la prova. A San Pietroburgo Van Rompuy definisce la strage chimica «un crimine contro l’umanità», sposa la linea americana aggiungendo che «solo il regime possiede armi chimiche in quantità e mezzi per lanciarle a distanza», fa accenno alle prove dell’intelligence francese, ma infine conclude che la «soluzione va trovata attraverso l’Onu »… allineandosi su Putin e Xi Jinping. La Merkel conclude: «Non credo che il G20 possa trovare una posizione comune». Per l’ambasciatrice Power «non esiste soluzione Onu». Gli europei cercano di salvarsi in corner sponsorizzando una «soluzione politica» alla guerra siriana. È l’unica cosa su cui sono d’accordo sia Obama che Putin: infatti non vuol dire niente.


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