Nel Pd salta l’accordo sulle nuove regole

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ROMA — Verso le 14 un tweet di Stefano Menichini, direttore di Europa , lancia l’allarme: «Serio rischio catastrofe». Delegati si aggirano sperduti in platea: «Che succede?». Deborah Serracchiani: «C’è una logica in questa follia». Il «giovane» Fausto Raciti prova la sintesi e cita Nanni Loy: «Stanno facendo pacco, contropacco e contropaccotto». Lo scarto verso il caos, dopo una mattinata proficua e composta, avviene all’improvviso. Le correnti si fronteggiano armate. Colpi bassi e manovre, accordi e tradimenti. Veltroniani e bindiani fanno saltare le modifiche allo Statuto, sulle quali si era trovato un faticoso accordo nella notte. Bersaniani (e franceschiniani) provano a far saltare numero legale, assemblea e congresso, per dare una mano al governo Letta (l’arrivo di Renzi potrebbe essere dirompente) e prendersi una rivincita. Giovani turchi e cuperliani chiamano i rinforzi. E i renziani, a sorpresa, portano a casa un risultato più che accettabile, almeno in apparenza: automatismo segretario-candidato premier, primarie l’8 dicembre e congressi regionali entro il 31 marzo. Tutto finito? Al contrario, comincia ora. Perché in un estenuante rimpallo, a base di cavilli e sofismi, l’interpretazione delle regole del gioco oscillano paurosamente. Molti (a cominciare dai bersaniani) sono pronti a scommettere che «non si farà in tempo» e le primarie slitteranno all’anno prossimo. E sul web scoppia la rivolta della base: «Siamo stanchi di un Pd diviso».
Alle 2.35 di sabato notte, i 21 componenti della Commissione congresso chiudono l’accordo: due paginette fitte con la mappa delle nuove regole. Un capitolo riguarda le modifiche allo Statuto: fine dell’automatismo segretario-candidato premier, abolizione delle Convenzioni che filtrano i candidati e rallentano l’iter. Nel secondo capitolo ecco le «raccomandazioni», con l’iter congressuale: si comincia con assemblee di circolo e provinciali, il 27 settembre la Direzione, entro l’11 ottobre le candidature, l’8 dicembre il congresso con primarie; infine, congressi regionali entro il 31 marzo. I non iscritti pagheranno 2 euro per le primarie, i candidati potranno avere solo una lista di sostegno.
La mattinata sembra tranquilla. È vero che la bindiana Margherita Miotto se n’è andata dalla Commissione sbattendo la porta e che il veltroniano Roberto Morassut ha detto no. Ma gli altri 19 sono concordi. All’auditorium interviene il segretario Guglielmo Epifani seguito dai candidati. Prima di loro, però, le avvisaglie della tempesta. Parla Enrico Morando (veltroniano): minaccia ricorsi, il segretario–candidato premier è l’«architrave della vocazione maggioritaria». Poi la Bindi: contesta gli interventi allo Statuto «ad personam e a partita in corso». Poi Cuperlo, lungamente applaudito: parla di povertà, cita Bobbio e il Papa, e rivendica la sua linea: «Vinceremo se parliamo a tutti, ma usando le nostre parole. Non c’è cambiamento senza sinistra». Renzi cita Amazon, il giudice Livatino e Rilke; paragona il rischio che corre il Pd al declino di Motorola e Nokia («hanno perso la sfida con i tempi»).
Passano i minuti e si arriva al voto. La situazione precipita. La Bindi chiede di votare ogni singolo elemento dell’accordo. Si adombra la mancanza dei due terzi necessari e perfino del numero legale. Panico. Ci si aggiorna a mezz’ora dopo. Matteo Orfini, «giovane turco», non fa giri di parole: «Mai vista così poca gente: Bersani e Franceschini hanno lavorato perché non ci fossero i numeri in assemblea. Noi siamo sulla stessa linea di Renzi: se questo è il clima, pijamose tutto». Meglio accontentarsi, che rischiare di far saltare il congresso. Nella pausa, partono le chiamate: «Stiamo lavorando per raccattare anche i morti». Finale convulso. Dietro front, non c’è il quorum: le proposte di modifica vengono ritirate. Ermete Realacci commenta: «Neanche una bocciofila è gestita così male».
Paolo Gentiloni, all’uscita, prova la sintesi: «Hanno vinto renziani e cuperliani». Ma la questione di chi ha vinto è delicata. I renziani sembrano soddisfatti: un Renzi segretario sarà automaticamente candidato premier, senza primarie (ma c’è chi dice che vige ancora la «deroga transitoria» fatta proprio per lui da Bersani). In più il congresso è in una data accettabile. Bersani avanza dubbi: «Sono preoccupato per i tempi stretti». I suoi avversari non gli credono: «Vuole farlo saltare. Ma non era lui che voleva tenere insieme la ditta e non voleva governare sulle macerie?». Beppe Fioroni è sicuro: «Come si fa a contrarre 8 mesi in 8 giorni? Il congresso si farà nell’anno nuovo». Nico Stumpo lo dice così: «Bisognerebbe zippare i giorni». I bersaniani accusano: «È stata sua la colpa». Alludono alla Bindi, che aveva già messo le mani avanti: «Nessuno pensi di usare la nostra battaglia leale per far saltare il banco».
Ancora Orfini: «C’è una parte del partito che intende il Pd come semplice supporto del governo ed è asserragliata per evitare che arrivi Renzi: per loro significherebbe la fine del partito». Gianni Pittella è sconfortato: «Siamo al suicidio politico, il Pd è un caso clinico». Un delegato richiama, tra il divertito e lo sconcertato, l’eterogenesi dei fini: «Pensate a cosa accadrebbe se il governo saltasse domani: Epifani sarebbe automaticamente il nostro candidato premier. Non è buffo? ».
Alessandro Trocino


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