Se la grande industria diventa piccola

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Bisognerà infine prenderne atto. Così come la democrazia non si esporta con la guerra, neanche il modello della grande impresa capitalistica attecchisce facilmente in una nazione come l’Italia: disarticolata nelle sue centinaia di campanili, sotto i quali la piccola impresa ha dato luogo alla fusione, nel bene e nel male, fra economia e famiglia. Talvolta con le virtù della cooperazione ma altrove con i vizi dei clan. Sviluppandosi col talento creativo delle arti e dei mestieri, ma sempre con la tentazione della chiusura protezionistica. Marxisti e capitalisti confidavano di risolvere nella forma superiore della grande impresa tale caratteristica mo-lecolare, indicata come una tara di arretratezza sociale. Ma il panorama desolante delle fabbriche che chiudono scompagina il loro schema: davvero non esiste un futuro italiano pensabile senza imprese con migliaia di dipendenti?
Basta uno sguardo d’insieme sui registri delle Camere di Commercio per mettersi alle spalle la controversia che divide gli economisti e i sociologi fin da quando, alla fine degli anni Ottanta, Giuseppe De Rita lanciò la provocazione del “piccolo è bello”. Alla quale gli industrialisti replicarono osservando che la seconda economia manifatturiera d’Europa non può certo reggersi senza uno scheletro di grandi industrie, pena ritrovarsi afflosciata su se stessa.

Da qui l’accusa a De Rita di celebrare un anacronismo sociale, con l’aggravante di assecondare una spinta individualistica ormai inadeguata a forgiare un moderno senso civico. Acqua passata. Le cifre rivelano che la grande industria oggi in Italia dà lavoro a una percentuale ultraminoritaria degli occupati: meno di mezzo milione di dipendenti. E che per giunta le imprese con più di 250 dipendenti vanno in liquidazione già da un decennio a un ritmo doppio rispetto alle piccole imprese. Dunque c’è poco da discutere su“piccoloèbello”,“no,grandeèmeglio”.Stiamovivendonon un riassetto, per quanto doloroso, della grande industria italiana del ventesimo secolo, ma piuttosto la sua dissoluzione strutturale. La scelta della famiglia Agnelli di investire all’estero i suoi capitali è solo l’epifenomeno più vistoso di una tendenza allo smantellamento della grande impresa che la recessione degli ultimi cinque anni ha accelerato ma che difficilmente un’eventuale ripresa economica arresterebbe.
Forse allora è meglio ricordare che lo sviluppo della grande industria in Italia nel corso di poco più di un secolo è stato contraddistinto da un forte sostegno venuto dalla mano pubblica al capitale di rischio privato. E anzi una quota significativa delle nostre grandi industrie sono nate su diretta iniziativa dello Stato. Ancora oggi Eni, Enel, Finmeccanica, Ferrovie dello Stato, restano fra le poche grandi industrie nazionali. Mentre le privatizzazioni di Ilva, Telecom e Alitalia hanno contribuito a rendere incerto il futuro di questi gruppi. Se dunque è ragionevole pensare che anche in futuro la nostra economia manifatturiera non possa reggere invertebrata, cioè senza lo scheletro della grande industria, un ritorno in nuove forme al capitalismo di Stato diviene un orizzonte plausibile: in Italia il modello del capitalismo anglo-sassone si è manifestato come ideologia nefasta piuttosto che come prassi virtuosa. La politica industriale ritorna a essere un imperativo strategico dei governi, anche se reperire nuove fonti di finanziamento pubblico delle imprese è sempre più problematico.
Oggi la moria delle imprese, chiusure e fallimenti, fughe all’estero e capannoni svuotati, sono la cronaca quotidiana di una vera e propria mutazione antropologica. Il teorico del capitalismo molecolare all’italiana, Aldo Bonomi, nel suo ultimo saggio (“Il capitalismo in-finito”, Einaudi) si spinge a parlare di apocalisse culturale determinata dalla rottura della simbiosi fra impresa e vita. Ma se questo vale soprattutto per i piccoli, cioè le imprese mai cresciute oltre il limite dei 15 dipendenti, resta pur sempre questo il tessuto connettivo del futuro. Le aziendine muoiono e rinascono: la media dei dipendenti per impresa resta fissa a quota dieci. Le grandi aziende invece da un decennio muoiono e basta.
E allora forse bisognerà fare di necessità virtù, considerando anche che gli unici segnali di vitalità registrati dagli osservatori economici riguardano un sensibile incremento di cooperative per lo più fondate da giovani altrimenti esclusi dal mercato del lavoro.
Non avranno le spalle, un tempo robuste, delle grandi industrie. Dovranno cercare in una formazione cosmopolita quel raccordo con un’economia internazionalizzata senza cui il domani gli è precluso. Nel sistema italiano manifestano buona tenuta, semmai, circa quattromila medie imprese già addestrate alla competizione planetaria, ben oltre i confini angusti del loro territorio. Non sarà più il “piccolo è bello”. Ma è nella storia dell’economia sociale italiana, dai liberi Comuni al Rinascimento fino alla rivoluzione dei distretti industriali e ai “miracoli” delle loro eccellenze, che ritroviamo l’impresa dal volto umano, quella che nobilita il lavoro riunendo il profitto alla cooperazione. Forse anche la grande impresa multinazionale potrà recuperare la sua forza perduta imparando che i territori
non si calpestano ma si valorizzano.


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