“Sì, mi sono battuto per salvare la fabbrica ma non sono mai stato al soldo dei Riva”

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BARI — «Non sono mai stato nel libro paga dei Riva, non sono mai stato al soldo di alcun padrone. La mia è la storia di un uomo libero», dice Nichi Vendola.
Il presidente della Regione Puglia è indagato per concussione. Avrebbe tentato di “ammorbidire” il direttore generale dell’Arpa Giorgio Assennato perché correggesse i “valori estremamente elevati di benzoapirene” contenuti in un dossier preparato nel 2010 dall’Agenzia per la protezione dell’ambiente. Il governatore aveva paura dei Riva?
«Io ho scelto e confermato il professor Assennato alla guida di Arpa per le sue qualità scientifiche e morali. Quanto al resto: basta consultare la documentazione degli atti amministrativi e delle scelte normative fatte in Regione, per rendersi conto che la mia amministrazione ha avuto la schiena dritta nei confronti di Ilva. Ritrovarmi nello stesso pozzo nero con gli inquinatori del capoluogo ionico, mi appare come un doloroso paradosso».
A quanto pare i pubblici ministeri non hanno la stessa impressione.
«È il motivo per cui sono turbato. Ma come tutti coloro che hanno responsabilità nella vita pubblica, posso essere chiamato a rispondere dei miei comportamenti. L’ho sempre fatto e lo farò anche questa volta, con serenità. Se sapessi di avere piegato la mia coscienza a un qualsiasi compromesso indegno, sarei in grado di infliggere a me stesso la più dura delle pene».
Ha pensato in queste ore, di dimettersi?
«Perché dovrei abbandonare il campo? Non mi hanno mica trovato diamanti o lingotti d’oro. Non sapevo nemmeno di essere indagato. Ho operato nel rispetto della legalità. Per questo chiederò di essere ascoltato da quei magistrati che hanno portato alla sbarra un pezzo pregiato, e spregiudicato, di capitalismo italiano. Siamo in una fase preliminare dell’inchiesta, ma spero che la verità potrà emergere rapidamente».
Rapidamente.
«Certo, perché non ho paura della verità. Soprattutto per una ragione: sono orgoglioso di essere a capo di un esecutivo che ha provato a scoperchiare la pentola. Parlo di fatti. Nel 2006 abbiamo raddoppiato l’organico dell’Arpa a Taranto e speso mezzo milione di euro perché fosse acquistato lo spettrometro, usato per le indagini sulle diossine. Fino ad allora non esistevano monitoraggi in nessuno dei duecento camini dell’Ilva e quando nel 2008 abbiamo avuto i primi dati, abbiamo approvato (unici a farlo in Italia) la legge anti-diossina. È un altro fatto che abbiamo imposto barriere severissime al benzoapirene, mentre il governo nazionale con il decreto del 15 agosto 2010 spostava di due anni il tempo previsto per l’applicazione dei limiti emissivi. E abbiamo voluto l’ennesima legge, quella sulla valutazione di danno sanitario, che rappresenta una vera rivoluzione: non è la salute dei cittadini che deve adattarsi ai veleni».
Niente da rimproverarsi?
«Sì, una cosa: aver immaginato di poter portare sulle nostre spalle tutto il peso di una grande questione nazionale come Ilva, aver creduto di potere in solitudine sconfiggere l’arroganza dei Riva ».
Non è che avete fatto solo finta di litigare con i “padroni delle ferriere”, come lasciano intendere i pm?
«C’è stato un punto vero di contrasto tra noi, Regione, e una parte dell’ambientalismo: la morte del siderurgico. Mi sono battuto contro l’idea che quella fabbrica dovesse chiudere i battenti. La sfida per me era, ed è, quella della riqualificazione ambientale dell’acciaieria. Forse è una valutazione politica sbagliata, ma non mi sembra che sia un reato».
Presidente, il lavoro dei magistrati potrebbe convincerla del contrario?
«Se hanno un sospetto, devono andare fino in fondo. Sono convinto, pure per la stima antica che nutro nei confronti di quei magistrati, che non sarà difficile per me poter dimostrare la limpidezza dei miei atti. È in gioco il patrimonio più grande di cui dispongo: la mia reputazione».


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