Costi della Politica: Dublino elimina il Senato

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Nell’ex tigre celtica, l’Irlanda finita commissariata dall’Europa per i suoi rovesci finanziari ma oggi sulla via di una lenta risalita (l’economia segna un timido +0,4%), i sessanta senatori della Camera alta nel luglio scorso hanno preso una decisione storica: pur dividendosi (33 a 25, 2 neutrali) hanno votato per autoeliminarsi, ovvero cancellare l’istituzione in cui siedono. Magari, in cuor suo, qualche parlamentare del Seanad (il Senato irlandese) avrebbe sperato in un ripensamento o in un allungamento dei tempi ma il dado era tratto e la macchina delle demolizioni avviata: domani, 4 ottobre, i cittadini della repubblica andranno alle urne per il referendum che sancirà la chiusura «per inutilità e per eccessiva spesa» di uno dei due bracci legislativi. Scontato il risultato, i sondaggi della vigilia parlano di un 70% di ultra favorevoli.
In Irlanda il Senato è poco più di un soprammobile costituzionale e istituzionale. Non è eletto dai cittadini ma le nomine sono di competenza del governo, dei partiti, delle università. È un club prestigioso, a suo modo, comunque senza un potere normativo: può solo bocciare le leggi e rispedirle al primo ramo che poi riapprova e si chiude lì. Che senso ha? Una grande perdita di tempo e uno spreco di risorse pubbliche che uno Stato di 4,5 milioni di abitanti non intende permettersi. È da un po’ di anni, da ben prima che le finanze pubbliche saltassero per aria, che l’Irlanda discute di riformare la sua Costituzione. Ma la sbornia indotta dai sogni di ricchezza e di boom aveva lasciato i buoni propositi nel cassetto. Il feeling fra elettori e politica sembrava incrollabile. Poi il vento è girato. Gli irlandesi si sono sentiti traditi, si sono visti svuotare le tasche e hanno cominciato a manifestare il loro disagio verso una classe dirigente ingrassata a dismisura. E adesso i nodi sono venuti al pettine. Nessuno tollera sprechi, tanto meno sprechi e costi determinati dalla politica. Allora se si chiedono tagli e sacrifici ai lavoratori, ai professionisti, agli imprenditori, occorre sacrificare anche qualche rappresentante del popolo sovrano. Quale migliore occasione per sperimentare una sana e rigeneratrice amputazione istituzionale? Gli umori della gente contano. E ascoltarli è un dovere per la classe politica. Non significa assecondarli sempre, occorrono ragione e lungimiranza e occorre non abbandonarsi al populismo che spesso nasconde propositi inconfessabili. La grande coalizione fra i conservatori di Enda Kenny e i laburisti di Eamon Gilmore ha preso l’Irlanda che era un cumulo di macerie di bilancio e, costretta dall’Europa, ha chiesto di tirare la cinghia. I risultati si intravedono. Gli irlandesi hanno rinunciato a tanto, in termini di occupazione, ricchezza, risparmio privato e tasse ma hanno preteso un gesto dalla politica: che si autolimitasse in modo serio nelle spese inutili, nei privilegi, nelle poltrone.
Ed ecco il «suicidio» del Senato in luglio e ora il sì di conferma con il referendum. Il risparmio è marginale, 20 milioni di euro all’anno, ma ciò che conta è la volontà di eliminare il superfluo dei parassiti, delle cariche inutili e obsolete, di chi anziché progettare e approvare le leggi le blocca in nome di interessi di clan. L’Irlanda ci regala un esempio (come la Danimarca, la Svezia, la Nuova Zelanda) di che cosa significhi, per davvero, ridimensionare i costi della politica. Fatti, non bugie o interminabili bla bla. Dal fallimento si esce così.


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