“Stupri di gruppo e scosse elettriche così ci hanno torturato nel deserto prima della traversata della morte”

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PALERMO — Okba, almeno, è arrivata. E il suo orribile calvario di violenze e torture, è riuscito a raccontarlo. Sara, invece, è finita in fondo al mare e Youhana il mare non è neanche riuscita a vederlo, uccisa nel deserto dai suoi aguzzini dai quali, dopo l’ennesimo stupro, aveva provato a fuggire. «Una sera, dopo essere stata allontanata dal mio gruppo, sono stata costretta con la forza dal somalo e da due suoi uomini ad andare fuori, mi hanno buttato per terra e bloccata, mi hanno rovesciato in testa della benzina provocandomi un forte bruciore al cuoio capelluto, alla pelle del viso ed agli occhi, poi a turno, hanno abusato di me».
Il somalo, Mouhamud Elmi Muhidin, 24 anni, Okba se l’è ritrovato accanto un mese dopo nel centro di accoglienza di Lampedusa. Riconosciuto da lei come da altre delle sue vittime, il “comandante” ha rischiato il linciaggio, poi è finito in manette su ordine del procuratore aggiunto della Dda di Palermo Maurizio Scalia e del sostituto Geri Ferrara. Sarebbe lui uno degli organizzatori del drammatico viaggio conclusosi il 3 ottobre a mezzo miglio da Lampedusa con il naufragio del barcone sul quale erano stipati più di 500 eritrei che nelle settimane precedenti erano stati sottoposti ad ogni genere di violenza, stupri continui per le donne, torture per gli uomini, per estorcere alle famiglie altri 5.000 dollari pur di far arrivare i loro cari oltre il Canale di Sicilia. Mouhamud Muhidin non era salito a bordo del barcone che ha fatto 366 vittime, ma a Lampedusa è approdato tre settimane dopo, il 25 ottobre, con un altro viaggio. E la rabbiosa reazione delle sue vittime ha portato gli uomini delle squadre mobili di Palermo e Agrigento a scoprire i drammatici retroscena della più grande tragedia del mare degli ultimi anni.
LE RAGAZZE VIOLENTATE
Okba Fanos, 18 anni, eritrea, una dei 157 superstiti del naufragio, è una delle 20 donne che per settimane,
nel lunghissimo viaggio tra il deserto del Sudan e la Libia, è stata più volte stuprata. «Anch’io sono stata oggetto di violenza sessuale da parte di quest’uomo e dei suoi complici. E i miei stupratori non hanno fatto uso di protezione non curanti neanche della mia giovane età, in quanto ancora vergine. Due ragazzi minorenni, mie connazionali sono state portate via dalla casa e anch’esse violentate. Dopo circa un’ora abbiamo visto rientrare nella stanza solo una delle due ragazze, Sara, 16 anni, in compagnia dei tre uomini. Ci ha raccontato che era stata violentata dal somalo e da altri due, avevano provato a fuggire ma lei era stata bloccata, l’altra ragazza, Youhana, invece, era stata uccisa. Anche Sara non ce l’ha fatta, è morta annegata».
IL VIAGGIO ALL’INFERNO
Un viaggio nell’inferno, picchiati, seviziati, tenuti prigionieri in una fattoria di Sheba dove mangiavano pane e acqua una volta al giorno. Racconta Desta Tiamea, 23 anni eritreo: «Ho visto per la prima volta il somalo nel deserto tra Chad e Libia mentre io e altri 130 connazionali ci dirigevamo a piedi verso la Libia per poterci imbarcare per l’Europa. Insieme ad una cinquantina di miliziani somali, minacciandoci con delle mitragliette, ci hanno obbligati a salire su alcuni furgoni e ci hanno condotti in una casa alla periferia di Sehba in Libia dopo 6 giorni di viaggio. Lì senza motivo hanno cominciato a picchiarci con dei bastoni».
LA RICHIESTA DI RISCATTO
È ancora Desta che racconta: «Il somalo ci ha derubati e costretti a chiamare i nostri familiari per pagare un riscatto di 3.300 dollari minacciando di ucciderci». Poi la cessione ad un’altra banda e il viaggio verso la Libia: «Quando siamo arrivati a Tripoli abbiamo contattato telefonicamente un tale Ermias che ci ha inviato un automezzo per trasportarci presso la sua residenza. Per il trasporto in Sicilia, Ermias ha voluto 1.600 dollari. Poi sono rimasto un altro mese e mezzo prima di imbarcarmi per la Sicilia».
LE SEVIZIE AGLI UOMINI
Il racconto di Bahta Alay, 35 anni, è agghiacciante: «Il somalo che è arrivato a Lampedusa è colui che era in possesso di tutte le chiavi di quella casa, comprese quelle degli armadi che custodivano le armi. Era lui che contattava personalmente i nostri familiari per la richiesta del riscatto e che, armato di pistola, ci ha minacciato più volte facendoci colpire con dei manganelli. Addirittura un giorno, dopo averci bagnati con dei secchi d’acqua e allagato il pavimento hanno preso dei fili elettrici e dopo averli appoggiati a terra ci hanno fatto prendere una scarica elettrica che è durata solo pochi secondi solo grazie al conseguente corto circuito della rete della casa. Ridendo ci dicevano che se morivamo loro erano contenti perché noi eravamo solo dei cristiani, esseri inferiori a loro musulmani».
IL LINCIAGGIO MANCATO
Bahta Alay avrebbe preferito farsi giustizia con le sue mani. «Ho pregato Dio giorno e notte affinché mi facesse incontrare di nuovo in vita questo soggetto per fargliela pagare. Mi hanno detto che altri miei connazionali avevano provato ad ucciderlo ma la polizia lo ha preso prima».


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