Lo scacco di Rafsanjani ai falchi così stanno prevalendo i negoziatori

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CHI è contro chi nei palazzi di potere a Teheran? In queste ore cruciali, mentre a Ginevra si decide il futuro dei rapporti con lo storico nemico, gli Stati Uniti, fino a ieri il “Grande Satana”, oggi un interlocutore che potrebbe determinare «un punto d’arrivo nella storia dell’Iran», come ha sottolineato l’altro giorno Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, eminenza grigia della teocrazia, la mappa degli equilibri è in movimento. Non è stato mai facile decifrare l’esatta geografia del potere in Iran. La svolta c’è stata nello scorso agosto con l’arrivo di Hassan Rouhani al vertice della Repubblica e innanzitutto dopo la sua decisione di chiudere definitivamente il contenzioso con gli occidentali sul nucleare, ma quella mappa risulta ora ancora più enigmatica, malgrado l’appoggio del leader supremo Ali Khamenei al nuovo presidente.
Di sicuro la dialettica politica iraniana non è più quella conosciuta fino all’altro ieri, cioè, quando i “riformisti” si opponevano ai “conservatori”. La crescita del peso dei militari, dei Pasdaran in primo luogo, nella politica, nell’economia e nella finanza del paese; la crescita di una destra che non porta il turbante da mullah, ma si ritiene più fedele al khomeinismo originale e la frantumazione della stessa area dei conservatori e degli integralisti, hanno sostanzialmente modificato la composizione, ma anche l’identità di quell’area.
Qualche giorno fa nel Palazzo Ladan a Teheran c’è stata una sorta di vertice tra due esponenti del vecchio conservatorismo che la dice lunga su con chi avrà a che fare Rouhani nel caso di un accordo con l’America: i due erano Mahmud Ahmadinejad, l’ex presidente, e Mohham Bagher Ghalibaf, dallo scorso settembre di nuovo sindaco di Teheran. A suo tempo, tra Ahmadinejad e Ghalibaf non correva buon sangue, alcune convergenze tra loro sarebbero la novità politica nella destra iraniana e una eventuale coalizione potrebbe allargarsi progressivamente verso altri personaggi della nomenclatura politica e militare.
Ghalibaf, forte dalla sua posizione da sindaco della capitale, ha criticato Rouhani perché “mendica” la benevolenza dell’America e si è seduto al tavolo dei negoziati da una «posizione di debolezza». L’ha seguito il potente comandante del corpo dei Pasdaran, il generale Mohammad Ali Jafari, che poco dopo la famosa telefonata tra Rouhani e Obama il 27 settembre a New York, ha bruscamente richiamato all’ordine il presidente: «Non doveva accettare di parlare con quella persona». Ma anche un mullah di primo grado ha espresso implicitamente la sua adesione alla probabile coalizione Ahmadinejad- Ghalibaf: si tratta dell’Imam della preghiera a Teheran, Ahmad Khatami (da non confondere con Mohammad Khatami, l’ex presidente riformista), che dal pulpito della preghiera del venerdì ha sollecitato i negoziatori iraniani a cominciare le trattative con il grido di “Morte all’America”. Ad amplificare la voce del dissenso verso Rouhani c’è sempre la testata ultraconservatrice Kayhan che con il suo direttore Hossein Shariatmadari non perde occasione per minacciare chiunque osi parlare della “resa al nemico”.
Per ridimensionare il peso della nuova destra dovrebbero bastare le ultime parole del leader supremo Khamenei, quando ha detto che «non bisogna indebolire i nostri negoziatori», anche se lui non vede con ottimismo le trattative con gli Stati Uniti. Le sue parole hanno comunque permesso a Mohammad Javad Zarif, il capo della diplomazia iraniana di recarsi a Ginevra senza troppe ansie per quando tornerà in patria per riferire su ciò che ha discusso e ha ottenuto dagli americani. Rouhani e Khamenei si fidano delle capacità di Zarif come mediatore diplomatico, avendo lui svolto per anni il ruolo di rappresentante dell’Iran all’Onu. Ma Khmenei punta soprattutto sulle capacità politiche di Rouhani per la gestione di questo momento di passaggio, spostando le proprie tradizionali simpatie dai conservatori puri e intransigenti verso i conservatori pragmatici, appunto, verso Rouhani e Rafsanjani. Molti osservatori ritengono che il vero stratega di questa fase sia proprio Rafsanjani, dotato di uno straordinario fiuto politico e attento osservatore di ciò che accade nelle viscere della Repubblica islamica, mentre la stragrande maggioranza della popolazione trova ormai privo di senso lo slogan “Morte all’America” e il paese scivola verso il basso.


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