Il Colle apprezza la scelta dei pm: rigore e chiarezza nella decisione

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ROMA — Il proprio sostegno, Giorgio Napolitano l’aveva ribadito la settimana scorsa, con i fatti. Ricevendo cioè Anna Maria Cancellieri al Quirinale per discutere con lei «il seguito che si sta dando al messaggio sulla questione carceraria», e auspicando «l’ulteriore pieno sviluppo dell’azione di governo avviata dal ministro della Giustizia».
Ecco: in quell’«ulteriore sviluppo» — che prevede dunque un orizzonte temporale da non interrompere — si sintetizzava l’appoggio del capo dello Stato. Si sperava che il semplice rendere nota quell’aspettativa servisse ad allontanare dalla Guardasigilli lo spettro della sfiducia. Ma negli ultimi giorni sono cambiate diverse cose, tanto che quella che da più parti (e pure dal Colle) è considerata una campagna d’aggressione adesso s’incrocia con spinte più esplicitamente politiche, come la battaglia per le primarie in casa Pd e forse perfino con il redde rationem dentro Scelta Civica. Il che rende tutto più complicato perché, per calcolo deliberato o per forza d’inerzia, stanno montando reazioni fino a ieri impensabili.
Uno scenario complesso, insomma. Che non ha comunque indotto il presidente della Repubblica a cambiare opinione su una persona che conosce bene, e che stima, fin dai tempi in cui la conobbe: quando lui guidava il Viminale e lei era uno dei funzionari più attivi e in vista del ministero dell’Interno. Certo, la posizione della Cancellieri si è molto alleggerita dopo la decisione della Procura di Torino di spogliarsi della pratica passandola ai colleghi di Roma, ma non senza aver dato conto che «non ci sono indagati». Una «decisione» e una «precisazione» che Napolitano ha apprezzato per la «chiarezza e il rigore». Un passaggio che finisce — oggettivamente — per derubricare la prova di forza sulle dimissioni del ministro a «problema di opportunità», posto che in questo modo si voglia d’ora in poi intendere la partita.
Solo che, alla rincorsa contro la Cancellieri attivata dal Movimento 5 Stelle (secondo la strategia di farne un «apriscatole» utile a scoperchiare gli attuali assetti e scatenare una crisi di governo, ma utile anche a reiterare la solita evocazione di una richiesta di impeachment per il capo dello Stato), si sono aggiunte una pesante pressione mediatica e parecchie voci critiche del Partito democratico. Da Matteo Renzi a Pippo Civati, nettamente per le dimissioni, mentre Gianni Cuperlo per il momento si limita ancora a chiederle di valutare la propria posizione «con lo spirito di servizio che l’ha sempre contraddistinta». Il tritacarne politico è in moto. Ed è quindi logico che al Quirinale guardino quasi interdetti a una simile deriva. Con i timori di chi considera quest’accelerazione non soltanto come l’ennesima tappa di un progressivo imbarbarimento della vita pubblica, ma come una mossa studiata ad arte per attaccare da un altro versante Palazzo Chigi e destabilizzare l’esecutivo. Magari fino ad affondarlo.
Una tentazione che, del resto, appare in linea con certe spinte politiche ad aprire al più presto la crisi e ormai espresse quasi alla luce del sole. Basti pensare a quelli che vorrebbero un immediato cambiamento di assetti, attraverso un nuovo «patto d’alleanza» da rinegoziare e un riequilibrio della compagine di governo da consacrare con un rimpasto, per sanare in questa maniera la recriminata «asimmetria di rappresentanza» venutasi a creare dopo la scissione del centrodestra tra berlusconiani e alfaniani. Tutto è in movimento, ma in realtà — come osservano al Quirinale — non essendo ancora accaduto nulla dal punto di vista parlamentare, non c’è da attendersi proprio nulla. Almeno fino al voto sulla decadenza del Cavaliere, il prossimo 27 novembre.
Marzio Breda


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