Il pressing su Draghi e il nuovo nemico: la deflazione

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La crisi dell’Eurozona è di nuovo nelle mani di Mario Draghi. Sta prendendo una forma nuova e anche questa volta la Banca centrale europea (Bce) è sostanzialmente sola ad affrontarla. Nei giorni scorsi, sono arrivati due segnali in qualche modo gemelli che danno il segno della nuova fase. Il dato flash sull’inflazione di ottobre ha registrato uno scarsissimo 0,7%, meno della metà di quanto era in luglio e soprattutto ben lontano dal target della Bce, che è di un’inflazione inferiore ma vicina al 2%. Rumori di deflazione, cioè di calo dei prezzi, hanno iniziato a correre sui mercati e nelle cancellerie. In parallelo, lunedì il ministro dell’Economia italiano, Fabrizio Saccomanni, e ieri il ministro delle Finanze francese, Pierre Moscovici, hanno sostenuto che l’euro è troppo forte e dunque i mercati «vorranno vedere qualche azione concreta prima della fine dell’anno» (Saccomanni). Richiami alla Bce, che oggi riunisce il proprio consiglio direttivo per prendere decisioni di politica monetaria.
Quella a cui siamo di fronte è una disinflazione, non ancora una deflazione (a parte in Grecia). Molti economisti ritengono che la ripresa internazionale, per quanto non straordinaria, eviterà una fase di rincorsa dei pezzi al ribasso. Ma la situazione potrebbe evolvere in quella direzione per alcuni Paesi, e non sarebbe una buona notizia: prezzi in calo si accompagnano di solito ad acquisti e investimenti rinviati e dunque a stagnazione o recessione. I tassi di mercato dei bond legati alle aspettative di inflazione indicano che anche la Spagna, dopo Atene, potrebbe scivolarci: e per Paesi come l’Italia e la Germania, le previsioni sono di aumenti dei prezzi attorno o sotto l’uno per cento, lontani dal target della Bce. Le attese degli investitori, dunque, sono per un’iniziativa della banca centrale, nei termini di un taglio dei tassi d’interesse o di nuovi stimoli al sistema bancario europeo affinché presti all’economia: alla riunione di oggi o a quella di dicembre.
La caduta dell’inflazione è in parte il risultato del calo dei prezzi delle materie prime, del costo dell’energia (sceso dell’1,7% rispetto a un anno fa), e del rallentamento della crescita dei prezzi alimentari. Ma ha anche ragioni endogene all’economia dell’Eurozona, in particolare al sistema bancario che sta riducendo le proprie attività: in un anno, i prestiti nell’area euro sono diminuiti di quasi l’1,5% e ciò ha rallentato la crescita della massa monetaria, base dell’andamento inflazionistico. La Bce ha cercato di rompere il circolo vizioso, con successo relativo: potrebbe decidere di fornire altra liquidità a basso costo alle banche, come ha fatto — per mille miliardi di euro — a cavallo di 2011 e 2012. Gli istituti di credito, però, stanno già restituendo quei prestiti, segno che probabilmente non trovano impieghi migliori. Un’altra possibilità è quella di passare a una remunerazione negativa dei depositi bancari presso la Bce, in modo da disincentivare le banche a tenere lì i loro denari: ma anche questo non sembra un passo risolutivo.
Un taglio dei tassi d’interesse — oggi allo 0,5%, già a un livello molto basso — avrebbe il vantaggio di dare un segnale forte. E rafforzerebbe anche la tendenza dell’euro, mostrata negli ultimissimi giorni, a perdere un po’ di energia proprio in attesa di un calo dei tassi. Qua, però, ci sono due problemi. Il primo è che avvicinare ancora di più i tassi allo zero significa, per la Bce, restare con un’arma in meno in futuro. Il secondo è più politico.
Le pressioni di Parigi e di Roma — che in sostanza vorrebbero iniziative di politica monetaria abbastanza radicali da indebolire l’euro — ieri hanno fatto alzare qualche sopracciglio nella sede della banca centrale, a Francoforte. Innanzitutto perché gli interventi politici possono avere l’effetto contrario rispetto a quello a cui puntano: Draghi e la Bce non possono permettersi di essere meno che autonomi dai governi, in pubblico ma anche all’interno, dove l’argomento dell’indipendenza può essere usato da chi non ritiene che sia il momento di allentare ulteriormente la politica monetaria, nel caso specifico Berlino. La Bundesbank (la banca centrale tedesca) di recente ha sottolineato con evidenza possibili bolle che si starebbero formando nel mercato immobiliare della Germania, proprio a causa di tassi d’interesse già bassi. Inoltre, ritiene che i livelli record toccati dalle Borse — nonostante la bassa crescita dell’area euro — siano un segno di altre bolle in formazione.
Il pressing italofrancese potrebbe dunque dare un’argomentazione in più alla posizione tedesca. A Francoforte ha sorpreso anche una frase di Saccomanni, riportata dalla stampa internazionale, secondo la quale «gli interventi verbali del presidente Mario Draghi non sembrano funzionare come si sperava». Alcuni economisti, ad esempio l’americano Kenneth Rogoff, sostengono al contrario che un linguaggio forte di Draghi sulla volontà di fare risalire l’inflazione sarebbe una buona cosa, che potrebbe spingere verso l’alto le aspettative inflazionistiche: nella Bce ritengono che un’arma del genere non dovrebbe essere depotenziata. Per Draghi è sempre un concerto da solista.
Danilo Taino


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