Ora i sostenitori di Renzi temono il flop delle primarie

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Su quella ricorrenza pende un sondaggio che terrorizza i renziani e rinfranca i bersaniani, i quali puntano a tramutare le votazioni sul segretario in un flop del partito pur di delegittimare il sindaco di Firenze. Secondo queste rilevazioni appena il 16 per cento degli elettori del Pd pensa di andare a votare alle primarie. L’undici per cento dichiara di non avere ancora deciso e il 73 per cento — dicasi il 73 per cento — esclude di andare ai gazebo per scegliere il nuovo segretario.
Certo, si tratta solo di un sondaggio. Certo, manca ancora un mese all’appuntamento con le urne delle primarie, ma il dato è indubbiamente inquietante. Lui, il sindaco, anche se è preoccupato, fa mostra di non esserlo più di tanto: «Vi prego, io non voglio proprio entrare nelle liti interne, non voglio sentire o dire sciocchezze. Noi dobbiamo pensare a costruire un programma per l’Italia non a indugiare in beghe di poco conto». Sarà anche così. Ma una parte dei renziani è preoccupata. Dopo l’offensiva di Gianni Cuperlo e dei suoi sul tesseramento e sulle primarie (all’insegna di «il primo che passa vota»), si teme la delegittimazione e, soprattutto, la disinformazione: gran parte dell’elettorato non ha ancora capito bene che questa volta si tratterà di primarie veramente aperte, con un turno unico, primarie alle quali potrà partecipare chiunque, come è sempre stato finora.
Ed è per questo che lo slogan del responsabile Comunicazione, Antonio Funiciello, «primarie aperte» è stato bocciato: non perché, come contestano ufficialmente i cuperliani, alluda all’elezione di un candidato premier, ma perché rappresenta un invito a votare a tutti. Esattamente ciò che i nemici di Renzi non vogliono. Nemici che, nel frattempo, si sono moltiplicati, come spiega con ironia e sagacia Paolo Gentiloni: «Finché pensavano di stare sul carro del vincitore era tutto un osanna a Matteo, appena hanno capito che lui non fa compromessi, e non accetta mediazioni al ribasso, lo stanno ridipingendo come il “corpo estraneo”, il “fascistoide”, lo “sfasciacarrozze”. È uno schema vecchio e collaudato». Uno schema «comunista», suggerisce un amico del sindaco di Firenze. Comunque uno schema teso a tentare di tarpare le ali al vincitore annunciato e scontato.
Ma si parlava di due date. Già, perché ce n’è un’altra che, inevitabilmente, influirà sul destino del Pd. È quella del 16 novembre. Precede l’otto dicembre, non è una data che riguarda direttamente il Partito democratico, ma è destinata per forza di cose a influire sulle sue sorti. È quella del consiglio nazionale del Pdl. Ciò che accadrà lì avrà un peso enorme sulle future scelte del Pd. Un autorevole esponente del Partito democratico che ha avuto modo di parlare di recente con Berlusconi si è sentito riversare addosso questo ragionamento: «Io non ho problemi con i miei dissidenti: decidano loro che fare. Se vogliono scomparire si accomodino e se ne vadano, per me se vogliono fare un partitino del 3 per cento sono affari loro. Se vogliono rimanere avranno un posto alle Europee. Altro non avranno, mi sembra chiaro».
Un discorso, quello del Cavaliere, che ha messo in allarme lo stato maggiore del Pd: «Come facciamo ad andare avanti se Berlusconi costringe i dissidenti ad andarsene? È un’illusione pensare che in questo modo il governo sarà più stabile». Già, era quello che si era sempre detto. Lo aveva dichiarato Letta, lo aveva confermato Franceschini, lo aveva ribadito Epifani. Pensavano che pur di non andare alle elezioni e di non misurarsi con numeri che non hanno Alfano e i suoi avrebbero retto il governo il più a lungo possibile. Adesso al Pd cominciano a pensarla diversamente: «Con Grillo e Berlusconi all’opposizione di un esecutivo che, purtroppo, non ingrana, noi che facciamo? Ci prendiamo l’onere delle piccole intese, ci mettiamo la faccia e perdiamo i voti?». Bell’interrogativo. Il Partito democratico non sa ancora dargli una risposta.
Maria Teresa Meli


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