Da Berlinguer a Matteo la sinistra sdogana il leader post-ideologico

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QUANDO si dice che Matteo Renzi è il primo leader compiutamente post-ideologico della storia politica italiana si intende qualcosa che trascende il puro dato anagrafico.
Certo, il vincitore è venuto al mondo nel gennaio del 1975: Berlinguer stava per trionfare alle amministrative, di lì a poco che Zaccagnini avrebbe sostituito Fanfani; e se Craxi era ben lungi dal prenotare la guida del Psi, il dottor Berlusconi costruiva palazzine in Brianza.
Questo per dire che post-ideologico non è una parolaccia, ma una circostanza che colloca Renzi ben oltre gli schemi formatisi nel vivo delle culture politiche del secolo scorso, in una dimensione del tutto inedita e specialmente evoluta, nel senso che dentro di lui ci sono e agiscono molti più indizi, simboli, stili, linguaggi, miti, tecniche, ibridazioni e contagi di quanti se ne possano forse oggi ammettere e comunque riconoscere.
Per cui dopo la vittoria rischia di suonare eccentrico, o addirittura malizioso, ma il trentottenne che ieri ha conquistato il Pd all’insegna del cambio generazionale reca senz’altro in sé l’eredità di La Pira e si presenta avendo alle spalle il ritratto di Mandela, dietro di lui senti gli U2 e i comitati per Prodi, Sanremo, Miss Italia, la Nazionale e le stragi di mafia, la globalizzazione, Bartali e Jovanotti («la Grande Chiesa che parte da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa»), ma quale esemplare di una nuova razza di leader, ha introiettato anche la lezione dei suoi stessi avversari. Che sono Berlusconi e Grillo.
Sui complessi rapporti che legano la vicenda del primo al renzismo esiste una ormai vasta letteratura, per lo più polemologica, rinverdita – l’accusa di «continuità con il ventennio berlusconiano » – pure nell’ultimo scorcio delle primarie. Non esiste d’altra parte ufficiale conferma sulla frase con cui il Cavaliere, all’apice del potere, congedò il Sindaco dopo il celebre pranzo di Arcore: «Ti apprezzo perché mi assomigli ».
Ma tale apprezzamento risulta a tal punto acclarato nel nucleo di cristallo della cerchia berlusconiana (oltre a Marina e Barbara, Dell’Utri e Signorini, Briatore e la Santanché) che dinanzi all’ennesimo entusiasmo Renzi si è sentito in dovere di raffreddarlo: «Bene, adesso aspettiamo l’endorsementdi Jack lo Squartatore ».
La battuta era divertente, ma valeva solo per quel momento. Nell’interessante cronologia che apre la recentissima biografia di Renzi, «Il Seduttore» (Barbera, euro 15,90), Simona Poli e Massimo Vanni annotano che nel 1994 il futuro leader del centrosinistra esordì partecipando a cinque puntate de «La ruota della fortuna » di Mike Bongiorno, dove vinse 48 milioni in gettoni d’oro. La tv, vedi le ospitate da Maria De Filippi, ma anche e più in generale il mondo delle rappresentazioni, vedi le foto in veste e posa di Fonzie su
Chi e il servizio glamour di Marc Hom su Vanity fair, così morbido nel suo bianco e nero da evocare una carica di turbo-seduzione, appunto, a 360 gradi, cioè rivolta sia a maschi che a femmine.
Là dove un tempo c’erano appartenenze e progetti, in gran parte domina oggi il marketing, la ricerca del successo come consenso. Di questo fanno testimonianza il linguaggio calcistico, il culto della «vittoria», così come il «miliardo» di tagli alla politica o il «contratto» con gli italiani. Caratteristica della post-politica è che tutto questo armamentario di inconfessate «acquisizioni» e pretesi «cedimenti» al berlusconismo, tanto più detestati dalla sinistra tradizionalista, consente in realtà a Renzi – che non è mai stato del Pci, propugna una leadership energica e ha sempre evitato di associare la sua figura a simboli e bandiere del Pd – di promuoversi
come un prodotto concorrenziale nel campo del centrodestra. Ma non solo.
Il giorno dopo le elezioni, quindi in tempi non sospetti, dinanzi allo sfascio del centrosinistra, un politico acuto e solitamente sorvegliato come Enrico Letta disse: «Di sicuro Renzi sarà la carta del futuro. E su forme di democrazia diretta e partecipazione bisogna riconoscere che Matteo è moderno e decisamente competitivo con Grillo».
Chissà se Letta lo ripeterebbe oggi. E tuttavia non pare un caso che il Renzi competitivo con Berlusconi lo sia anche, se non di più, nei confronti di Beppe Grillo, che lo chiamava «l’ebetino», po «Cipollino Renzie» e poi «il prendinculo degli italiani». Ebbene, lui, sebbene permaloso, non si è mai offeso; né pare che mai abbia invocato le categorie del fascismo e dello squadrismo.
Nel Pd non mancano quelli su tutti Franco Marini – che hanno accusato il futuro leader del Pd di essere «come Grillo». Più sofisticato, e senza escludere contaminazioni berlusconiane, D’Alema ha sostenuto che «Renzi e Grillo vendono la stessa merce ». Ma proprio tale osservazione, cui fa da contrappunto quanto detto da Antonio Ricci («Renzi è un venditore straordinario, a livello di Berlusconi giovane») a suo modo conferma le caratteristiche di leader post-ideologico. Che è appunto quella di puntare al segmento elettorale del M5S, senza alcun pregiudizio, impossessandosi dei suoi temi: costi della politica, piattaforme digitali, primato dei social.
Fatti propri questi argomenti, secondo le previsioni, il leader cinquestelle «si sgonfierà come palloncino». Al che Grillo, forse impensierito da quell’invasione di campo, ha risposto che l’odierno leader del Pd soffriva di «invidia penis». Quest’ultima considerazione porterebbe lontano, perciò ci si limita qui a ricordare che dopo la selvaggia psico-diagnosi Grillo si riservò di arruolarlo lui, Renzi: «Se si comporta bene, valuterò la sua iscrizione al M5S come attivista». Certo il tono suonava padronale. Ma nella post- politica l’arroganza premia.


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