“Italia fiaccata dalla crisi, i giovani se ne vanno”

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ROMA — Sopravvissuti, ma infelici. Il crollo non c’è stato, ma la crisi ci ha fiaccato, ci ha tolto «il sale», la spinta, la voglia di affrontare i conflitti. Ha allargato le diseguaglianze sociali e ampliato la precarietà, ha fatto volare all’estero le menti più fresche e giovani, ha incartato il Paese nella spirale mefitica di un triplo mantra: «siamo sull’orlo del baratro-ci vuole stabilità-non abbiamo una classe dirigente adeguata». Eppure nell’Italia definita «sciapa e infelice» qualche speranza, qualche puntello c’è, e arriva dalle donne, dagli emigrati e dai giovani che se ne sono andati, ma — si spera — un domani potrebbero tornare.
Il 47esimo rapporto del Censis sulla «situazione del Paese», parte da una dura critica alla classe politica, attraversa una landa desolata di numeri sullo stato della società e dell’economia e chiude con l’elenco di quelle che sono «le energie affioranti dalle quali ripartire ». Giuseppe De Rita, presidente del Censis, boccia una classe dirigente che ha «enfatizzato la crisi», per legittimare la propria persistenza al potere quale unico soggetto in grado di gestirla. E boccia pure la scelta politica del non aver voluto affrontare i conflitti, «che invece vanno accettati » perché è dal finto «mare calmo » che nascono i guai.
Guai che il rapporto rappresenta con un lungo elenco di cifre negative. Nel lavoro l’incertezza sul futuro è «dilagante»: 4,3 milioni di persone non trovano un’occupazione e, fra chi ce l’ha 6 milioni vivono comunque sotto la cappa della precarietà. Una famiglia su quattro fatica a pagare le bollette, il 70 per cento assicura di non essere in grado di affrontare una spesa imprevista, una su due teme di non riuscire più a mantenere il proprio stile di vita. Gli effetti sui consumi vanno di pari passo: la sobrietà è d’obbligo, il 73 per cento delle famiglie si dedica alla caccia agli sconti, il 53 ha ridotto gli spostamenti in auto o scooter. Nel complesso la quantità della spesa è tornata indietro di dieci anni. Piange anche il bene-simbolo della casa: dal 2007 ad oggi le compravendite sono crollate del 50 per cento e la tipologia d’immobile più richiesta ora è il monolocale.
Non va meglio per le imprese. Il Censis stima che fra il 2009 e il 2012 ne siano scomparse quasi duemila, e anche quelle rimasti in piedi, secondo uno studio del Fondo Monetario, non se la passano troppo bene: un terzo delle aziende italiane ha difficoltà a ripagare i debiti contratti con le banche.
Il quadro è nero, cosa fare? Il rapporto del Censis guarda ai giovani, e in particolare a quelli che hanno deciso di andarsene. Sono in tanti: fra il 2011 e il 2012 le partenze sono aumentate del 28,8 per cento e ora gli italiani all’estero sono oltre 4,3 milioni. Il 54 per cento di chi parte ha meno di 35 anni; si va via inseguendo il lavoro (72 per cento), ma anche la formazione (20,4 per cento). In questa nuova categoria di «navigatori del mondo globale» il Censis vede una spinta per ripartire. Altro che bamboccioni: questi ragazzi hanno un progetto e che se il Paese saprà cambiare forse torneranno portando in patria nuove energie «internazionali e digitalizzate». Altra spinta propulsiva per uscire dallo stallo arriva dalle donne, che il Cenis definisce «il nuovo ceto borghese produttivo»: nell’ultimo anno sono nate 5 mila nuove imprese a guida femminile, stravince la dimensione minima, ma «l’adattamento difensivo» è notevole. Stesso trend per le aziende messe in piedi dagli immigrati: negli anni della crisi sono aumentate del 16,5 per cento, mentre quelle gestiti da italiani sono diminuite del 4,4. Ma spinte individuali a parte, il rapporto focalizza anche i settori dai quali si deve ricominciare: il terziario innanzi tutto, ma serve una profonda ristrutturazione che lo renda capace di sfruttare le potenzialità del digitale. E’ in crescita il welfare, va rilanciata un’edilizia innovativa capace di trasformare città e territori. E poi c’è la cultura, settore dall’enorme potenziale dormiente. Qui il Censis suggerisce: «serve una logica industriale, basta con modelli gestionali che ostacolano l’integrazione fra pubblico e privato».


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