Un «patto di gennaio» per ridurre le tensioni e costruire una tregua

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Il solo fatto che ieri mattina presto si siano visti, dopo avere accreditato un rinvio, è un segno da salutare positivamente. Anche se registrare la comune volontà di andare avanti, di accordarsi entro fine gennaio sulla legge elettorale, e di nutrire «una grande sintonia» su lavoro e semestre europeo all’Italia, trasmette un quadro un po’ troppo edulcorato rispetto allo scontro di queste settimane.
Rimane dunque da capire se si tratti di un accordo o di una tregua; e per fare che cosa. Il premier ricorda che Renzi ha presentato tre proposte di riforma elettorale. Concede al segretario che fa bene a parlare anche con Forza Italia, Movimento 5 Stelle e Sel. Ma ribadisce che un’intesa deve partire «ovviamente» da un compromesso tra i partiti dell’esecutivo. L’avverbio, in realtà, suona come un monito al leader del Pd, criticato nella maggioranza per avere privilegiato inizialmente la trattativa con Forza Italia rispetto al Nuovo centrodestra di Angelino Alfano. Non è scontato, tuttavia, che Renzi assecondi questa indicazione.
Si capisce solo che i temi del patto di coalizione e della riforma elettorale rimangono intrecciati. Dalla loro combinazione dipendono probabilmente anche un eventuale rimpasto di governo, e il futuro della legislatura. Renzi conferma di avere una grande fretta. Vuole riuscire a strappare un qualche «sì» sul sistema di voto, perché su questo si è speso molto. E fa dire ai suoi che per arrivarci il Pd è pronto anche alle «sedute notturne» in Parlamento: tanto che intesa per il 2014 e arrivo in aula della riforma elettorale dovrebbero avvenire negli stessi giorni. Può darsi che l’incastro riesca: sebbene non sia chiaro come Alfano possa avallare soluzioni destinate a schiacciarlo.
Per questo, la sensazione è che, più dell’avvio di un anno di collaborazione, ieri sia stato siglato una sorta di «patto di gennaio»: limitato nel tempo e condizionato da quanto avverrà nelle aule parlamentari e nei rapporti quotidiani tra vertice del Pd e palazzo Chigi. Il rumore di fondo di un Berlusconi che continua a teorizzare elezioni politiche ed europee abbinate per il 25 maggio prossimo, risponde a due esigenze. La prima è quella di tenere unita Forza Italia e di arginare l’insoddisfazione dei «falchi», destinati al ridimensionamento dalla strategia del Cavaliere. La seconda è di far sapere al Pd che il «sì» alla riforma è legato al calcolo di andare alle urne quanto prima. C’è anche l’ambizione di essere capolista alle europee, ma la pena accessoria dell’incandidabilità, a cui è seguita la decadenza da parlamentare, glielo impedisce.
Il ministro per i rapporti con il Parlamento, Dario Franceschini, teorizza la necessità di approvare «una buona legge ampiamente condivisa senza far cadere il governo». «Nessuno capirebbe» una crisi nata dalla spaccatura di un Pd che ha un nuovo segretario ma anche il presidente del Consiglio. Franceschini ritiene che Letta e Renzi non siano condannati alla rivalità. Ed è possibile che nei prossimi giorni si tenti di seguire un’agenda parallela in grado di non metterli in rotta di collisione. Ma per un pezzo di sinistra, riforma elettorale e continuità della legislatura rimangono un ossimoro: se c’è l’una non ci sarà più l’altra. A meno che non si vada avanti a singhiozzo, logorando il sistema: un patto al mese, sperando di non inciampare e cadere tutti.


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