Assad rilancia e l’Iran va alla conferenza di pace per la Siria

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I russi vogliono rinvigorire il regime adesso che c’è da discutere il cessate il fuoco. E vogliono proteggere il loro investimento bellico-strategico al punto da forzare le parole del presidente siriano. «Se avessimo voluto abbandonare, ce ne saremmo andati all’inizio. Proteggiamo il nostro Paese, la questione è fuori discussione», gli fa dire l’agenzia Interfax .
Assad avrebbe espresso la volontà di rimanere al potere a una delegazione di deputati e leader religiosi russi. Il proposito è inaccettabile per gli americani e per l’opposizione, soprattutto se proclamato a pochi giorni dal vertice di Ginevra che comincia mercoledì. Così i portavoce del leader hanno preferito smentire gli alleati più fedeli: la frase di Bashar è stata riportata in modo «inaccurato» e il presidente «non ha concesso alcuna intervista a Interfax ». La posizione di Bashar si rafforza alla vigilia dell’incontro: l’Iran alla fine è stato invitato — l’annuncio è di Ban Ki-moon, segretario generale delle Nazioni Unite — e ha accettato. Poche settimane fa un diplomatico di Teheran aveva ripetuto: «Dovrebbero far parlare le nazioni che hanno influenza nel Paese. Escluderci è dannoso».
Le fessure nell’intesa tra Damasco e Mosca — mai messa in discussione durante i quasi tre anni di conflitto e i 150 mila morti — non sono paragonabili alle crepe con cui la coalizione dei rivoltosi si presenta in Svizzera. Dei 120 delegati invitati sabato a decidere se partecipare o meno alla Conferenza se ne sono presentati 75 e di questi ha votato a favore solo 58. Per Washington è comunque un successo e John Kerry, il segretario di Stato americano, prova a incoraggiare: «La mediazione sarà difficile, resteremo al fianco del popolo siriano».
L’apertura agli iraniani non può essere arrivata senza il consenso degli Stati Uniti. Per convincere l’opposizione Kerry ha ribadito che «qualsiasi soluzione politica non comprende Assad. Se pensa di far parte del futuro, deve sapere che non succederà». Adesso la presenza di Teheran sembra rimettere in discussione la partecipazione e il Consiglio nazionale in esilio minaccia di rinunciare.
Il regime prova a dimostrare di essere a disposto a concessioni e per la prima volta in cinque mesi ha permesso a qualche aiuto umanitario di raggiungere il campo per i rifugiati palestinesi di Yarmuk, nella capitale, sotto assedio e bombardato dall’esercito perché in parte controllato dai ribelli. Sarebbero anche stati evacuati gli anziani e i malati. Eppure — raccontano gli attivisti al New York Times — queste mini-tregue localizzate sembrano solo diversivi per cercare di guadagnare terreno: in altre zone per ottenere il cibo gli abitanti affamati e stremati hanno dovuto permettere ai soldati «lealisti» di issare la bandiera del regime sulle loro case, una resa filmata dalle telecamere della televisione di Stato.
Tutti accelerano le operazioni prima di Ginevra. Nelle province a nord, verso il confine con la Turchia, dal 3 gennaio i ribelli locali stanno cercando di sloggiare i miliziani fondamentalisti dell’Esercito islamico dell’Iraq e del Levante e stanno sorprendendo gli analisti militari perché sembrano aver riconquistato le aree dove spadroneggiavano gli «stranieri» (jihadisti arrivati dai Paesi del Golfo, dalla Cecenia, dall’Europa e dal Nord-Africa). Al punto che lo sceicco alla guida dell’Isil avrebbe invocato la fine degli scontri per «concentrarsi contro il regime».
Davide Frattini


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