La minaccia della minoranza bersaniana

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ROMA — Da una parte l’inedito trio Nuovo centrodestra, Scelta civica e Per l’Italia. Dall’altra la minoranza bersaniana. Matteo Renzi, stretto tra due fuochi, prosegue per la sua strada e non cancella l’incontro con Silvio Berlusconi. Vertice che si terrà oggi pomeriggio nella sede del Pd, al Nazareno, come annunciato dallo stesso segretario alle «Invasioni barbariche». Incontro che probabilmente non sarà decisivo, perché le trattative restano apertissime. Ma, nonostante i toni minacciosi e i battibecchi fratricidi, l’ottimismo dei renziani resta inflessibile: «Siamo a un passo dal chiudere», dice Maria Elena Boschi.
Il clima nel partito, però, si accende improvvisamente ieri mattina. L’offensiva è firmata Alfredo D’Attore ed è durissima: «Penso di poter parlare anche a nome di molti colleghi. Se domani si chiude il patto Berlusconi-Renzi sulla legge elettorale, un patto che esclude tutti gli altri, la maggioranza finisce domani». Sulla stessa scia Matteo Colaninno: «Un accordo preferenziale tra Pd e Berlusconi ad excludendum pone gravissimi rischi alla stabilità del governo Letta e quindi del Paese».
La minaccia di rottura, però, non coinvolge tutta l’opposizione a Renzi. Gianni Cuperlo, per esempio, è molto più cauto. Ribadisce la sua preferenza per il doppio turno e la sua speranza che si raggiunga un accordo dentro la maggioranza. Ma poi ai suoi spiega: «Lotteremo fino alla fine, però rispetteremo la decisione del partito. Sulla legge elettorale non ci possono essere questioni di coscienza». Insomma, alla Direzione di lunedì ci si potrà spaccare, potrà esserci una battaglia durissima, ma alla fine i cuperliani resteranno fedeli alla linea.
Renzi, intanto, tira dritto. E sceglie proprio la soluzione più sgradita a D’Attore, che nei giorni scorsi lo aveva avvisato: «Mi auguro che Renzi avrà l’accortezza di non incontrare Berlusconi, che allo stato è un pregiudicato, nella sede del Pd, mentre fa le segreterie del partito nei suoi comitati elettorali».
E invece sarà proprio così. Scartati il Parlamento, dove Berlusconi decaduto non vuole rimettere piede, e l’hotel Bernini Bristol, il Cavaliere ha accettato di buon grado l’ipotesi di mettere piede nella tana del nemico. Occasione per far rabbrividire la minoranza, che teme una «profanazione». Ma anche per tornare sulla scena da protagonista, pienamente riabilitato (secondo il suo punto di vista) come interlocutore politico.
«Dovrà passare sotto i simboli del Pd — dice però un renziano —, altro che riabilitazione». Il vertice sarà a quattro. Da una parte Silvio Berlusconi, spalleggiato dal gran ciambellano Gianni Letta, dall’altra Renzi, accompagnato da Lorenzo Guerini, portavoce della segreteria del Pd. Una scelta, quella di andare in delegazione (a differenza di altri incontri), che non è causale, come dice scherzando un altro renziano: «Con Berlusconi è sempre meglio avere testimoni».
Quella che è sembrata un’accelerazione ha fatto infuriare molti nel partito: «Per fare un accordo con Verdini — avverte D’Attorre — non possiamo resuscitare in un solo colpo il Porcellum e Berlusconi». I renziani, però, fanno muro. «Non si può non parlare con Berlusconi — dice uno di loro — basta vedere i numeri al Senato».
La lettura andreottiana di Angelo Rughetti è questa: «Visto che a pensar male si fa peccato, ma a volte ci si azzecca, penso che qualcuno dentro il Pd (e non solo), con la voglia di proporzionale, stia sperando che il tentativo di Renzi fallisca per poter votare a maggio ed eleggere un Parlamento che imbrigli il leader del Pd anteponendo gli interessi di parte a quelli del Paese». Ernesto Carbone respinge le «mezze minacce» di D’Attorre: «Non torneremo nella palude». E la Boschi si dice convinta: «Le trattative sono aperte, ma siamo vicinissimi al traguardo e non ci facciamo spaventare».
Alessandro Trocino


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