La sfiducia digitale che ci rende infelici

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Un problema che non affligge “solo” (si fa per dire…) la politica, le politiche, i politici e le istituzioni di governo. Ma riguarda anche noi e gli altri. Noi in rapporto agli altri. Gli stranieri, anzitutto. Gli immigrati. Tanto più quelli che non accettano di restare stranieri. Gli extra-italiani. Gli stranieri che hanno ottenuto la cittadinanza. I figli di immigrati nati in Italia. È difficile accettarli. Soprattutto per le forze politiche che sulla paura degli altri hanno costruito il consenso. La Lega, in primo luogo. A cui fa comodo la presenza al governo del ministro Kyenge, per esercitare la propria professione di imprenditore politico della paura — degli altri. Cambiando bersaglio, rispetto al passato, quando, negli slogan di piazza e nelle scritte sui muri, proclamava:«Meglio negri che terroni » . Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, d’altronde, nei mesi scorsi, hanno sconfessato l’emendamento che aboliva il reato di clandestinità, proposto da due senatori del M5S. Perché non previsto nel programma. Ma, soprattutto, per non ridursi «a percentuali da prefisso telefonico». Visto che il M5S ha svuotato la Lega nei territori padani. La sfiducia negli altri, dunque, non ha perduto colore politico. Ma, soprattutto, non ha più un nome, né un volto definito. Alita dovunque, intorno a noi. La sfiducia nei politici, nelle istituzioni pubbliche, negli stranieri, negli immigrati, insomma, è ben impiantata nella nostra vita quotidiana, nelle nostre azioni e relazioni di ogni giorno. Oltre 6 persone su 10 (nel campione intervistato da Demos, dicembre 2013) ritengono, infatti, che «gli altri, se si presentasse l’occasione, approfitterebbero della mia buona fede». Dunque, meglio diffidare. Per cautela. Per autodifesa.
La sfiducia verso gli altri alimenta l’incertezza nel futuro e le paure. Ma non appare particolarmente diffusa nei settori sociali tradizionalmente più incerti e impauriti: le persone anziane e meno istruite. Esterne ai circuiti dell’impegno edella partecipazione. È, invece, un atteggiamento trasversale. Pervade, con singolare intensità, i giovani, in particolare i giovani-adulti (fra 25 e 34 anni): 75%. Oltre 10 punti di più rispetto a dieci anni fa, quando apparivano meno diffidenti rispetto al resto della popolazione.
Ora non è più così. Non solo, ma questo atteggiamento coinvolge le persone che partecipano. In particolare, il “popolo della rete”. Oltre i due terzi tra coloro che conducono, con frequenza, discussioni e iniziative politiche su Internet, mostrano diffidenza verso gli altri. Ciò suggerisce che, negli ultimi anni, si sia creata una relazione più stretta fra la diffidenza e la partecipazione. In generale, a causa del sentimento di distacco verso gli attori politici e verso le istituzioni rappresentative. Per primi, il Parlamento, i partiti e i loro leader. Così, la partecipazione e la mobilitazione politica si è venata, sempre più, di sentimenti antipolitici. È divenuta, cioè, partecipazione anti-politica. Un orientamento che la Rete non ha scoraggiato. Semmai, è vero il contrario. Perché la Rete favorisce la dis-intermediazione. Bypassa la mediazione degli attori tradizionali. Per primi e soprattutto, i partiti. Ma anche le organizzazioni di rappresentanza.
La Rete, così, diventa un “medium” antitetico agli altri media. Mezzo, ma anche Simbolo di democrazia diretta. Di “contro-democrazia”, democrazia della sorveglianza (come la definisce Pierre Rosanvallon). Anche per questo la sfiducia negli altri non si riduce fra i nativi digitali e, in generale, fra quelli che Luigi Ceccarini e Martina Di Pierdomenico chiamano i “Cives. net”. I “cittadini digitali”, per citare Rosanna De Rosa (titolo di un recente saggio pubblicato da Maggioli, dove l’autrice analizza, fra l’altro, il caso del «M5S e l’organizzazione tecnologica della sfiducia »). Perché Internet è divenuto un terreno di lotta politica contro la politica — tradizionale. Perché, inoltre, sulla Rete e nei social-Network la comunicazione è immediata. Senza mediazioni. Diretta, appunto. E, quindi, più aspra. Cruda. Nel linguaggio e nell’espressione. In quanto nella Rete, dunque, si instaurano relazioni dirette, ma non empatiche. Cioè, si agisce e reagisce lontano dagli altri. Perché gli altri non sono lì, insieme a te, davanti a te. Non sempre ti conoscono e tu non sempre li conosci. Spesso, si riducono a un’immagine — non sempre chiara — sul pc, sul tablet o sullo smartphone.
Da ciò l’origine della nostra diffidenza. Tanto più diffusa quanto più gli altri si allontanano da noi. Appaiono e sono lontani da noi. Anche fisicamente. Come la politica e i partiti, al tempo della Democrazia del pubblico (come la definisce Bernard Manin). Mentre un tempo, neppure tanto tempo fa, la politica e i partiti erano presenti nella società e sul territorio in modo visibile. In fondo, anche l’atteggiamento verso gli immigrati è cambiato. Per le stesse ragioni, ma in senso contrario. Le paure si sono, infatti, stemperate (come mostra l’Osservatorio sulla Sicurezza curato da Demos, Osservatorio di Pavia e Fondazione Unipolis) via via che hanno smesso di essere Altri senza nome. E sono divenuti compagni di lavoro, collaboratori e collaboratrici delle nostre famiglie. Mentre i loro figli affollano le scuole, insieme ai nostri figli.
Perché la diffidenza è figlia della distanza. Della solitudine. Noi perdiamo la fiducia quando siamo e ci sentiamo soli. Quando la politica e le istituzioni ci appaiono e sono più lontane. Allora diventiamo un Paese di Forconi. Dove la protesta di alcuni gruppi, veicolata dai media, incontra e moltiplica la s-fiducia di molti. Dove la s-fiducia si propaga perché fa spettacolo. Dove i talk politici in tv rappresentano la s-fiducia per alzare l’audience. E intanto alzano la s-fiducia.
Dove la Rete illude di restare sempre connessi, sempre attivi e reattivi. Sempre insieme. Ciascuno da solo. Per conto proprio. Lontano dagli altri. Dove la partecipazione in Rete, spesso, genera sfiducia. Una sfiducia digitale.
Per questo “esercitare” la sfiducia — in politica, ma anche nella società e nella vita quotidiana — è facile, talora vantaggioso. Ma non risolve i nostri problemi. Anzi li complica. Perché la sfiducia genera sfiducia. E, insieme, abbassa il rendimento delle istituzioni, dell’economia. Infine, ci deprime. Infatti, tra coloro che “diffidano degli altri”, 8 su 10 ammettono di sentirsi “per niente felici”. Almeno per questo, praticare e coltivare la fiducia conviene. Se non per il bene pubblico e per gli altri, almeno per noi stessi. Per essere meno infelici.


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