L’affetto speciale

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C’è spesso molto con­for­mi­smo nella soli­da­rietà e pure i più irri­ve­renti ci cascano.

O forse Grillo aveva un altro pro­blema: cer­care di fre­nare la gio­stra degli insulti dei suoi, la scon­cia sod­di­sfa­zione con la quale troppi soste­ni­tori dei Cin­que stelle hanno accolto la sof­fe­renza dell’ex segre­ta­rio del Pd, «Gar­ga­mella». Se è così, l’apprendista stre­gone è in ritardo. Certo, non ha inven­tato lui la cat­ti­ve­ria e nem­meno l’insulto ano­nimo. Ma sta dando un bel con­tri­buto alla dif­fu­sione in poli­tica dell’odio orgo­glioso e riven­di­cato. E così molte delle frasi più cre­tine e ter­ri­bili con­tro Ber­sani sono apparse fir­mate con nome e cognome.

Ma messo da parte Grillo e tor­nando a Ber­sani — for­tu­na­ta­mente con più sere­nità visti i bol­let­tini medici — c’è da giu­di­care la par­te­ci­pa­zione pub­blica al suo malore. Che da parte del mondo poli­tico è stata dav­vero imme­diata, gene­rale e per­sino (azzar­diamo) sin­cera. Abbiamo visto avver­sari acca­niti com­muo­versi in tele­vi­sione, arci­ne­mici che all’ex segre­ta­rio ave­vano gri­dato di tutto arram­pi­carsi lungo la scala delle dol­cezze. Un fra­sa­rio che sulla bocca dei poli­tici non sap­piamo nean­che più rico­no­scere; certi comu­ni­cati sem­bra­vano scritti in lin­gua morta. Si può cre­dere a un rav­ve­di­mento istan­ta­neo, a uno spa­vento col­let­tivo o al buo­ni­smo delle feste. Oppure a qual­cosa di meno edi­fi­cante com’è la gene­ro­sità comoda che viene riser­vata agli sconfitti.

Ber­sani lo è indub­bia­mente: uno scon­fitto. Errori suoi e colpi bassi degli altri — e per­sino scor­ret­tezze isti­tu­zio­nali come quella di non aver­gli con­sen­tito di chie­dere la fidu­cia in par­la­mento — lo hanno pre­ci­pi­tato in pochi giorni dalla ribalta di una vit­to­ria annun­ciata alla retro­via del lea­der che poteva essere e non è stato. La sua para­bola aveva qual­cosa di tra­gico anche senza il malore dal quale vogliamo che si riprenda al più pre­sto. L’ostinazione nel per­se­guire il «cam­bia­mento» imma­gi­nato prima del voto (per quanto male, per quanto poco) è apparsa corag­giosa, ma è rima­sta troppo intrec­ciata a una pro­po­sta poli­tica timida e costruita su pro­grammi, colon­nelli e alleanze che corag­giosi non erano affatto. E così, adesso, chi vede la scia­gura delle lar­ghe e poi pic­cole intese può certo ram­ma­ri­carsi della scon­fitta di Ber­sani, ma è un ram­ma­rico che deve par­tire dagli errori dello scon­fitto. Chi invece le lar­ghe intese voleva, e in Ber­sani ha visto un osta­colo da supe­rare anche gra­zie al voto segreto con­tro Prodi, può adesso dare libero sfogo ai buoni sen­ti­menti. Con quell’affetto verso i som­mersi che nei sal­vati fa sem­pre venir su un po’ di cat­tiva coscienza.

Per que­sto non pos­siamo con­di­vi­dere l’ottimismo di Pier­luigi Casta­gnetti, che nella soli­da­rietà per l’ex segre­ta­rio ha voluto leg­gere, su Europa, «la con­ferma che il Pd è una comu­nità di per­sone che ha impa­rato a discu­tere sen­ten­dosi della stessa fami­glia». Per­ché per il nuovo capo fami­glia Ber­sani era ormai una paren­tesi chiusa, uno della vec­chia guar­dia archi­viato (e la parola non è que­sta). Per assi­stere all’epifania di un par­tito e non di un’altra cor­rente biso­gne­rebbe invece che gli astri cre­scenti della nuova mag­gio­ranza del Pd tro­vas­sero la forza della soli­da­rietà non solo verso chi con­si­de­rano inof­fen­sivo. Al momento chi disturba è insul­tato, lo abbiamo appena visto, o deriso.


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