Quando i tedeschi pagarono 37 miliardi

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FRANCOFORTE — «Avete fallito in modo irresponsabile», era stata l’accusa rivolta al management di DaimlerChrysler dal capo dell’Associazione dei risparmiatori e accolta con approvazione dai 7.000 azionisti presenti all’assemblea dei soci del gruppo di Stoccarda nell’aprile del 2007. Un’assemblea particolarmente movimentata. E l’ultima, nella storia del colosso tedesco-americano, nato nel 1998 dall’unione fra Daimler-Benz (Mercedes) e Chrysler Corporation, che i media tedeschi, in questi giorni di successo per l’acquisizione di Chrysler da parte di Fiat, nominano appena. Anche perché la fusione, costata nel ‘98 a Daimler 37 miliardi di dollari, si rivelò un fallimento industriale e finanziario, con perdite multimiliardarie e di immagine, un crollo del 60% del valore azionario e seri problemi anche per il marchio Mercedes.
Nel maggio del ’98 il «matrimonio in cielo» (Hochzeit im Himmel), annunciato a Londra dal ceo di Daimler-Benz Juergen Schrempp, insieme al capo di Chrysler Corporation Robert Eaton, fu lanciato per creare il maggiore gruppo automobilistico del globo (con un fatturato di 234 miliardi di vecchi marchi e 420 mila dipendenti). Una «fusione fra eguali», a conduzione paritetica (ma con il 57% delle quote in mano alla sede di Stoccarda), che poco per volta, si rivelò sempre più tedesca. A quei tempi Schrempp, ideatore della fusione insieme a Deutsche Bank (azionista di Daimler e alla guida dell’organo di sorveglianza) e Goldman Sachs, era convinto che Mercedes fosse troppo piccola per reggere la concorrenza e la futura sovrapproduzione di auto nel globo. E che era «meglio unire le forze quando i gruppi sono sani e il ciclo industriale è ancora favorevole», per realizzare grandi sinergie, abbattendo miliardi di costi attraverso progettazioni, acquisti e piattaforme delle auto in comune, e aumentare le vendite.
Ma il top manager tedesco non aveva tenuto conto delle differenze rivelatesi troppo ampie fra le due culture industriali, di management, di prodotti e della clientela. Al punto che già nel 2000 la situazione di Chrysler veniva considerata nei media «un disastro». Mentre per DaimlerChrysler si parlava di una «Mission Impossible 2» o di un nuovo «caso Rover» (dopo il divorzio oneroso da Bmw).
Una situazione trascinatasi per anni, di crisi in crisi. E nemmeno nella primavera del 2005 il volitivo Schrempp si arrese all’evidenza. Quando presentò all’assemblea dei soci un ultimo piano di ristrutturazione «lacrime e sangue», con tagli di altri 13 mila posti (il primo era costato 26 mila posti e 6 fabbriche). E per tutta reazione perfino Klaus Kaldemorgen, storico capo dei fondi Dws di Deutsche Bank, sbottò chiedendo alle migliaia di azionisti in rivolta se proprio «è necessario spararsi nei piedi per aver diritto al pronto soccorso?».
Un intervento che segnò una svolta. Perché per la prima volta, un’assemblea degli azionisti in rivolta mise sotto accusa il cuore industriale dell’Azienda Germania, uno dei simboli del capitalismo renano, basato sull’intreccio di partecipazioni industriali e bancarie, ormai completamente trasformato. E anche Schrempp accettò di dimettersi. E toccò al numero due Dieter Zetsche, dal 2006, raccogliere la sua difficile eredità, per guidare una nuova ristrutturazione, anche di Mercedes. Ma solo l’anno seguente si ventilò una possibile cessione di Chrysler, il cui valore, dalla fusione, era calato di 35 miliardi di euro. Da qui la rivolta degli azionisti, nell’assemblea del 2007, cui si accennava dianzi, che fu anche l’ultima, dopo 17 anni, presieduta dall’ex-ceo e presidente di Deutsche Bank Hilmar Kopper. Seguì, dall’agosto, l’annuncio della separazione da Chrysler (l’80% fu ceduto a Cerberus per 7,4 miliardi di dollari), la ridenominazione in Daimler e il rilancio del gruppo sotto la guida di Zetsche (il cui mandato scade nel 2016) e del presidente Manfred Bischoff (consigliere di Unicredit, ex-presidente di Eads). Mentre Deutsche Bank è uscita dall’azionariato, il Kuwait detiene il 6,9%, Renault-Nissan il 3,1%, e le restanti azioni sono in mano a investitori istituzionali e privati.
Marika de Feo


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