Salta l’accordo con la Svizzera per i capitali nascosti all’estero

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MOLTE volte annunciata, altrettanto spesso rinviata, la fine della guerra fredda italo-svizzera non ci sarà. Dopo un interminabile negoziato, entro fine mese i due Paesi dovevano chiudere un lungo elenco di contenziosi sul fisco e sul trattamento degli italiani che ogni giorno vanno a lavorarenel Canton Ticino.
INVECE non sarà firmata nessuna pax alpina, non ora almeno. Al suo posto, la crisi delle banche elvetiche dopo Lehman e la recessione più lunga nella storia dell’Italia unita secernono un sottile avvelenamento dei rapporti e ritorsioni incrociate: sui migranti, sulle tasse e sulla lista nera internazionale alla quale il governo di Roma ha consegnato quello di Berna.
Non doveva finire così, almeno nei programmi dei governi. Enrico Letta era atteso a Berna domani per il Forum di dialogo fra la Svizzera e l’Italia, organizzato dalla rivista Limes, dall’Ispi e dal ministero degli Esteri. Per quell’occasione era prevista anche la firma su un accordo complessivo fra i due Paesi sui problemi del trattamento fiscale, sul segreto bancario e i lavoratori transfrontalieri. Letta però ha fatto sapere da giorniche non ci sarà. Al suo posto, il presidente della Confederazione Didier Burkhalter accoglierà Fabrizio Saccomanni e, salvo miracoli delle prossime ore, non ci sarà nessuna intesa. Benché lo stesso ministro dell’Economia a Davos giorni fa avesse detto che il compromesso è vicino, difficilmente se ne riparlerà prima dell’estate.
Probabile che l’Italia stia perdendo interesse. Il governo non ritiene più di aver bisogno della Confederazione per raggiungere ciò a cui è più interessato dall’altra parte della sua frontiera nord: i capitali nascosti degli italiani. Il decreto del governo sulla “voluntary disclosure”(le dichiarazioni spontanee dei contribuenti), e soprattutto la legge elvetica che vieta alle banche di gestire fondi frutto di frode fiscale, di fatto segnano la fine del segreto svizzero sui capitali italiani: una svolta dopo tre secoli di fughe più o meno nobili di capitali. Con il decreto unilaterale del governo, molti infatti faranno emergere o riporteranno in Italia i propri fondi, senza godere dell’anonimato, ma pagando al fisco meno di quando dovrebbero in caso di accordo fra Roma e Berna: il 13-14% invece del 25-30%. Ci sono poi gli altri, i corrotti arricchiti, i commercialisti delle mafie, ma anche alcune categorie di dirigenti d’impresa: tutti gli italiani che non rientrano nelle maglie della depenalizzazione delle frodi prevista dal governo dovranno comunque levare le tende. Lasceranno la Svizzera. Apriranno fondi fiduciari a Dubai o a Singapore, ma comunque svuoteranno i caveau di Lugano, Chiasso o Zurigo. Da quando la pressione degli Stati Uniti minaccia di stritolare le banche elvetiche che proteggono i reati fiscali, la Svizzera è ormai costretta a separarsi dai clienti dal dubbio pedigree.
È soprattutto per questo che l’accordo con Berna per l’Italia adesso non è più urgente. E gli svizzeri di colpo si trovano privati dell’unica leva per arrivare invece a ciò che interessa loro: essere tolti dalla “lista nera” internazionale per concorrenza fiscale sleale alla quale l’Italia li ha consegnati, infliggendo loro danni finanziari e di credibilità. Anche qui, benché ormai la Svizzera stia togliendo il segreto sui conti, l’Italia non ha fretta di offrire concessioni. Il timore del governo è che il Canton Ticino, con il declino delle banche, cerchi una vocazione da paradiso fiscale delle imprese in modo da attrarre gran parte del tessuto produttivo lombardo. Una politica di aliquote basse in Ticino può desertificare interi distretti del comasco e della Brianza. E al ministero dell’Economia di Roma non basta la promessa di governo federale di Berna di «invitare» i Cantoni non lanciarsi nella concorrenza fiscale per attrarre imprese dall’Italia.
Il governo non si fida degli impegni elvetici, dunque la Svizzera resta consegnata alla “lista nera” dei Paesi dal gioco fiscale scorretto. A sua volta, ilTicino applica dunque una ritorsione di cui pagano le conseguenze i Comuni italiani vicini al confine. In base agli accordi, il Cantone dovrebbe infatti versare ai Comuni lombardi il 40% dell’imposta sui redditi che raccoglie alla fonte sui lavoratori transfrontalieri che ogni giorno arrivano a decine di migliaia dall’Italia. Ma da tempo il Ticino ha smesso di pagare, mettendo alla prova la tenuta di bilancio di molti enti locali lombardi. Così le cicatrici di anni di crisi bancarie, tempeste del debito e recessione stanno finendo per intossicare anche i rapporti più antichi. La pax alpina,per ora, può attendere.


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