Ciò che Moghe­rini non dice

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L’Italia non abban­do­nerà l’Afghanistan con la fine dell’Isaf, ma con­ti­nuerà a occu­par­sene, man­te­nendo l’impegno preso: lo assi­cura il mini­stro degli esteri Moghe­rini sul mani­fe­sto (7 giu­gno).

Quale sia l’impegno lo chia­ri­sce l’aeronautica: in sei anni i cac­cia­bom­bar­dieri ita­liani hanno effet­tuato in Afgha­ni­stan 3.583 sortite, «tra­guardo mai egua­gliato da veli­voli da com­bat­ti­mento ita­liani in ope­ra­zioni fuori dai con­fini nazio­nali dal ter­mine del secondo con­flitto mondiale».

Nella loro ultima mis­sione, il 28 mag­gio, due cac­cia­bom­bar­dieri Amx hanno distrutto l’obiettivo indi­vi­duato da un drone Pre­da­tor e dalla Task Force Vic­tor (clas­si­fi­cata come «unità spe­ciale e semi­se­greta» dalla Rivi­sta Ita­liana Difesa). Men­tre gli eli­cot­teri Man­gu­sta dell’Esercito, schie­rati a Herat, hanno var­cato la soglia delle 10mila ore di volo.
L’impegno delle forze armate ita­liane in Afgha­ni­stan ha dun­que un nome, che la Moghe­rini si guarda bene dal pro­nun­ciare: guerra. Che non ter­mi­nerà con la fine dell’Isaf. «La nostra Joint Air Task Force – comu­nica l’aeronautica – con­ti­nuerà ad ope­rare in Afgha­ni­stan con aerei da tra­sporto tat­tico C-130 J e da guerra elet­tro­nica EC-27 della 46a Bri­gata aerea di Pisa e i veli­voli a pilo­tag­gio remoto Pre­da­tor B del 32° stormo di Amen­dola». In altre parole, la guerra con­ti­nuerà in forma coperta, con appo­site unità aeree e forze spe­ciali che avranno il com­pito anche di adde­strare quelle locali. Sem­pre sotto comando degli Stati uniti che, dopo 13 anni di guerra costati oltre 600 miliardi di dol­lari (solo come spesa mili­tare uffi­ciale), non sono riu­sciti a con­trol­lare il paese e cer­cano ora di farlo con la nuova stra­te­gia. A tale pro­po­sito il pre­si­dente sta­tu­ni­tense Obama ha chia­mato il 27 mag­gio il pre­mier Renzi, tra­smet­ten­do­gli di fatto gli ordini.

L’Italia con­ti­nuerà così a par­te­ci­pare a una guerra che pro­vo­cherà altre vit­time e tra­ge­die sociali, scom­pa­rendo però dalla vista. L’Afghanistan – situato al cro­ce­via tra Asia cen­trale e meri­dio­nale, occi­den­tale e orien­tale – è di pri­ma­ria impor­tanza geo­stra­te­gica rispetto a Rus­sia, Cina, Iran e Paki­stan, e alle riserve ener­ge­ti­che del Caspio e del Golfo.

E lo è ancora di più oggi che la stra­te­gia Usa/Nato sta por­tando a un nuovo con­fronto con la Rus­sia e, sullo sfondo, con la Cina. Restare in Afgha­ni­stan signi­fica non solo con­ti­nuare a par­te­ci­pare a quella guerra, ma essere legati a una stra­te­gia che pre­vede una sem­pre mag­giore pre­senza mili­tare occi­den­tale nella regione Asia/Pacifico. Secondo il rac­conto della Moghe­rini, l’asse por­tante dell’impegno ita­liano in Afgha­ni­stan sarà «il soste­gno alla società civile» nel qua­dro dell’Accordo di par­te­na­riato fir­mato a Roma nel 2012 da Monti e Kar­zai, appro­vato dalla Camera a schiac­ciante mag­gio­ranza e dal Senato all’unanimità. Esso pre­vede la con­ces­sione al governo afghano di un cre­dito age­vo­lato di 150 milioni di euro per la rea­liz­za­zione di «infra­strut­ture stra­te­gi­che» a Herat (men­tre L’Aquila e altre zone disa­strate non hanno i soldi per rico­struire) e altri finan­zia­menti, che vanno ad aggiun­gersi ai circa 5 miliardi di euro spesi finora per le ope­ra­zioni mili­tari. L’aiuto eco­no­mico di 4 miliardi di dol­lari annui, che i «dona­tori» (tra cui l’Italia) si sono impe­gnati a for­nire a Kabul, finirà in gran parte nelle tasche della casta domi­nante, come la fami­glia Kar­zai arric­chi­tasi con i miliardi della Nato, gli affari sot­to­banco e il traf­fico di droga.

La Moghe­rini annun­cia l’impegno del governo ad «aumen­tare le risorse e ren­derle sta­bili». Parte ser­virà a finan­ziare quelle Ong embed­ded che, come cro­ce­ros­sine, vanno a curare le ferite della guerra per darle un volto «umanitario».


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