Dalla Polizia ai Servizi l’arma del silenzio per l’ascesa bipartisan dello “squalo” Gianni

Dalla Polizia ai Servizi l’arma del silenzio per l’ascesa bipartisan dello “squalo” Gianni

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ROMA . Il silenzio è una delle antiche regole del Potere. Perché i silenzi non impegnano. Lasciano spazio all’immaginazione di chi teme le verità o le intenzioni che nascondono. Costringono l’avversario a scoprirsi, a scomporsi e, possibilmente, ad arrendersi. Sui silenzi — e quello di tre lustri sui fatti della Diaz è uno dei tanti, certamente il più simbolico e dirimente da ex capo della Polizia — Gianni De Gennaro ha costruito la sua carriera di Fouché della storia Repubblicana, i suoi 35 anni ai vertici degli apparati di sicurezza dello Stato, il suo legame bipartisan con la politica. Ha ingrassato quell’icona di “intoccabile” cui deve il suo soprannome — “lo Squalo” — e che alla fine tiene insieme i suoi amici e nemici. Non deve quindi sorprendere che sia la maschera del silenzio che Gianni De Gennaro ha scelto di indossare di fronte a chi ne chiede in queste ore la testa. Primo fra tutti Matteo Orfini, presidente di quello stesso partito, il Pd, che nel luglio del 2013 esprimeva il Capo dello Stato (Giorgio Napolitano) e il Presidente del Consiglio (Enrico Letta) che lo vollero presidente di una Finmeccanica travolta dalle inchieste giudiziarie e per ben due volte decapitata del suo vertice (Guarguaglini prima, Orsi poi).
«Non l’ho chiesto io di strapparmi al tempo che vorrei passare con i miei nipoti e i miei cavalli», ripeteva sorridendo Gianni De Gennaro in quell’estate di ormai quasi due anni fa a chi gli chiedeva della sua ennesima “vita”. E in quella studiata guasconeria era la dissimulazione dell’uomo di potere che non chiede di essere gratificato con un’ennesima nomina che lo conservi nella stanza dei bottoni, ma quella nomina è invitato ad accettare, come il calice amaro del dovere. La stessa guasconeria con cui, nel giugno del 2007, lasciando dopo sette anni la guida della Polizia, riuscì ad accreditare il rumor che l’approdo sarebbe stato la guida dell’Unire (Unione nazionale per l’Incremento delle razze equine).
E’ andata come sappiamo. Commissario straordinario per l’emergenza dei rifiuti a Napoli (gennaio-maggio 2008), Direttore del Dipartimento per l’Informazione e la Sicurezza, il vertice della nostra Intelligence civile e militare (maggio 2008 — maggio 2012), Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega ai Servizi segreti nel governo Monti (maggio 2012 — aprile 2013). Quindi, Finmeccanica. Con Eni, la più strategica delle holding di Stato. Una cassaforte di ricchezza, sofisticato know-how militare e civile, segreti politici e diplomatici.
A 66 anni, quanti ne ha oggi (saranno 67 il prossimo 14 agosto), la rottamazione non è faccenda che sembri riguardarlo o che lo abbia anche soltanto sfiorato. Per due buone ragioni. Per il precoce ruolo di “Riserva della Repubblica” cui lo avevano consegnato gli anni della lotta a Cosa Nostra, dell’amicizia e del lavoro con Giovanni Falcone, del pentimento di Tommaso Buscetta, del rapporto privilegiato con gli Stati Uniti. Per la profonda comprensione della fragilità della classe politica e dirigente di un Paese nella sua infinita transizione. Quella che gli ha consentito nel tempo di essere portato in palmo di mano sia dalla sinistra di governo, che lo immaginò argine al sacco berlusconiano degli apparati (Polizia, Servizi, Arma dei carabinieri, Guardia di Finanza) e all’astro nascente che ne doveva essere l’asso piglia tutto (Nicolò Pollari), sia dalla destra che non ha mai smesso di temerlo e dunque blandirlo.
Ecco perché, a ben vedere, i giorni del G8 di Genova, la notte della Diaz e l’orrore di Bolzaneto, che pure avrebbero potuto decretarne precocemente la fine, si sono trasformati nel loro opposto. E l’abisso su cui era sospeso in una inarrestabile scalata al cielo. In quell’estate di 14 anni fa, Gianni De Gennaro fu politicamente risparmiato da un abbraccio parlamentare bipartisan che, rinunciando alle proprie prerogative (una commissione parlamentare che indagasse i fatti, ne traesse delle conseguenze e legiferasse, ad esempio, su un vuoto normativo come il reato di tortura) pensò di farlo “prigioniero”. In nome di un calcolo cinico che si sarebbe dimostrato fallace e avrebbe solo contribuito a ritardare la verità su Genova per 10 anni (fino alla sentenza della Cassazione) e a degradare “tre giorni di sospensione delle garanzie costituzionali” nel nostro Paese a semplice “questione giudiziaria”. Dunque, affare dei pochi responsabili individuati come tali (“le mele marce”) e fastidiosa coda per lo stesso De Gennaro che, nel 2011, nel processo al “cover up” di cui fu lastricato l’accertamento della verità sulla Diaz, sarebbe stato prosciolto in Cassazione dall’accusa di istigazione alla falsa testimonanza «perché il fatto non sussiste».
Vedremo ora se e dove porterà quest’ennesima tempesta. Servirà a capire se ha davvero fatto il suo tempo non tanto “la verità sulla Diaz” ma lo specchio in cui la forza di Gianni De Gennaro è stata in fondo anche l’immagine riflessa della debolezza della politica di cui da 35 anni è “civil servant”.


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