Le milizie dell’Isis entrano a Palmira I siriani mettono al sicuro le statue

Le milizie dell’Isis entrano a Palmira I siriani mettono al sicuro le statue

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Le sculture più i piccole, i frammenti che valgono un tesoro, tutto quello che si possa trasportare. Il governo siriano cerca di mettere al sicuro le meraviglie di Palmira: centinaia di statue — assicura il capo della città archeologica — sono state portate via. Restano gli archi, le colonne, i palazzi dell’antica oasi che fin dai tempi dell’impero romano era porta di passaggio fra l’Oriente e l’Occidente.
Adesso le milizie dello Stato Islamico cercano di sfondare quella porta, perché da lì sono poco più di duecento chilometri d’autostrada verso Damasco. Il regime combatte per proteggere il patrimonio dell’Unesco, un simbolo in tutto il mondo, combatte soprattutto per respingere l’assalto verso la fortezza dove il presidente Bashar Assad resta assediato.
Le truppe del Califfo sarebbero riuscite a conquistare quasi tutta Palmira, oggi chiamata in arabo Tadmur, sono vicine alle rovine. «Bisogna fermarli — dice l’archeologo siriano Maamoun Abdulkarim all’agenzia Reuters —. Il museo e i monumenti sono in pericolo».
La paura è che i fondamentalisti sunniti, come per la cinta muraria dell’antica Ninive in Iraq, distruggano i reperti, le statue che considerano opere profane. L’Unesco chiede una tregua immediata per «salvare uno dei siti più importanti del Medio Oriente».
All’inizio del conflitto i ribelli locali avevano preso il controllo di Tadmur-Palmira, a nordest di Damasco, conosciuta da tutti i siriani anche per il durissimo carcere dove finiscono gli oppositori politici. Da allora la città è stata ripresa dall’esercito regolare e in quelle aree la presenza di rivoltosi non legati allo Stato Islamico è ridotta: è uno scontro diretto tra Assad e il Califfato.
La televisione di Stato ha dato la notizia che i civili sono stati evacuati. Un migliaio di detenuti della prigione — sostengono gli attivisti — è stato invece portato in una caserma del regime per essere armato e mandato a combattere contro gli estremisti.
L’obiettivo dei miliziani è premere da queste zone verso Homs, vogliono tagliare in due il corridoio di sicurezza che il clan al potere ha cercato di proteggere fin dalle prime manifestazioni pacifiche di protesta quattro anni fa. Sono le regioni al confine con il Libano che da Damasco portano verso il Mediterraneo e il porto di Latakia, dove vivono e si sono arroccati gli alauiti, la minoranza che controlla il Paese da oltre quarant’anni.
Il regime ha concentrato le forze sulle montagne di Qalamun: per impedire i rifornimenti di armi ai ribelli attraverso il confine con il Libano, per mantenere una fascia protetta.
La campagna contro gli insorti — in quattro anni i morti sono oltre 230 mila — adesso si concentra su Aleppo per cercare di respingere l’assalto da est. I ribelli controllano ormai Jisr al Shughour e da lì possono minacciare Latakia, dove per la prima volta gli abitanti hanno protestato contro Assad, che considerano troppo lontano.
Dopo la conquista di Ramadi, città strategica nella provincia irachena di Anbar, lo Stato Islamico resta all’offensiva. Ha dimostrato di poter avanzare su più fronti, di poter organizzare operazioni coordinate in Paesi diversi. «La crisi dall’altra parte della frontiera — fa notare l’analista Hassan Hassan sulla rivista Foreign Policy — sta mettendo ancora più in difficoltà Assad: le milizie sciite arrivate dall’Iraq per sostenerlo stanno ritornando indietro a difendere la loro patria».
I telegiornale del regime annunciano che l’Iran avrebbe concesso nuovi prestiti al Paese, l’economia è devastata dal conflitto. Il governo ha invocato l’aiuto dei ricchi siriani che vivono all’estero: comprate la nostra moneta, va sostenuta.
Il clan degli Assad ha resistito grazie all’appoggio militare di Hezbollah, la milizia sciita libanese. Per il movimento guidato da Hassan Nasrallah quella in Siria è una battaglia anche contro l’avanzata dei sunniti, contro quelli che considera gli infedeli dello Stato Islamico.
Davide Frattini


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