La Cina punta sulle banche italiane

La Cina punta sulle banche italiane

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Non è stato il momento migliore, visti i ripetuti cali in Borsa delle banche italiane sulla scia delle tensioni per la crisi greca. Ma probabilmente l’ingresso della Banca centrale cinese nel capitale di Monte dei Paschi di Siena e Unicredit – reso noto ieri dalla Consob e risalente alle fine di giugno – ha logiche diverse. Le quote acquistate sono, anche in questo caso, di poco superiori al 2%. Così come era stato per le altre partecipazioni acquisite dalla People’s Bank of China: Terna e Saipem, dal gennaio scorso. E prima ancora, sempre con quote di poco superiori al 2% Generali, Eni, Enel, Prysmian, Telecom e Fiat prima della nascita di Fca.
Ai prezzi di ieri, malgrado il tonfo di Borsa Italiana, il pacchetto d’investimenti italiani della banca centrale cinese è pari a circa 4 miliardi di euro. L’investimento nelle due banche, da solo, valeva fino a venerdì scorso circa 770 milioni di euro. Da ieri un po’ in meno, dato che a causa della crisi greca Unicrediti ha perso il 6,12% chiudendo a 5,68 euro e Monte Paschi ha ceduto ben 11,5% a 1,53 euro.
Ad aggiungere a questa faccenda un interesse che va ben oltre le logiche dei mercati finanziari c’è anche la circostanza che il mercato cinese è da giorni sotto pressione per lo scoppio di una bolla speculativa sul mercato azionario locale, con la Borsa di Shanghai che ha perso in termini di capitalizzazione l’equivalente di 2400 miliardi di dollari.
A scommettere sull’Italia non è solo la Banca centrale. Lo scorso anno c’è stata la maxi-acquisizione da due miliardi di euro realizzata da State grid corporation of China, colosso statale delle utility, del 35% di Cdp reti, a cui fanno capo proprio le due reti per la distribuzione di energia e gas, Terna e Snam. E l’ingresso non molto tempo prima della Shangai electric nel capitale di Ansaldo Energia col 35%.Contando anche gli investimenti dei privati – come l’accordo che ha portato ChemChina nel capitale di Pirelli -, l’Italia è il secondo paese europeo per l’approdo dei capitali cinesi: oltre tre miliardi di euro nel 2014 secondo le stime di Bloomberg. Poca roba, tutto sommato, considerando che sempre nel 2014 il totale degli investimenti cinesi all’estero ha superato i 100 miliardi di dollari.
L’operazione apre però un capitolo bancario negli affari del governo cinese in Italia che finora mancava. Tanto attivismo viene letto in due modi, diametralmente opposti. Per gli ottimisti, indica la forte fiducia dei cinesi nell’economia italiana, nella sua capacità di ripresa e nelle aziende e gruppi industriali italiani. Per i pessimisti un modo per «segnalare» la propria presenza – la soglia del 2% è quella oltre la quale scatta l’obbligo di comunicare gli acquisti nelle società quotate – in una fase nella quale la nostra asfittica economia è facile preda di capitali esteri.
Di certo c’è che a tanta apertura del mercato italiano – ben lieto di riceve capitali da Pechino anche in settori strategici come le reti energetiche, le tlc e da ieri anche le banche – rispetto ad altri paesi del vecchio continenti non corrisponde nessuna forma di reciprocità. Come sanno bene gli investigatori fiorentini che, in una lunga quanto colossale indagine sul riciclaggio della criminalità cinese in Italia, si sono imbattuti nella sede milanese della Bank of China, dalla quale sono transitati miliardi di euro di capitali frutto di attività illegali e diretti alla madrepatria. Senza nessun controllo da parte dell’istituto, una delle principali banche cinesi. Secondo i magistrati fiorentini, dalla Cina non è stato possibile ricevere nessun informazione sui destinatari di tali somme e anche Bank of China figura tra tra i 297 soggetti per i quali è stato richiesto il rinvio a giudizio.



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